Si è spesso visto nel cosiddetto pirandellismo di Eduardo  una sorta di discendenza devota o, peggio, una specie di limite imitativo. Eppure in entrambi i casi si fa un torto alla genialità eduardiana di integrale “artefice magico”. La sua teatralità è pervasiva e onnivora, tutta calata negli oggetti teatrali che assumono una loro vita spiritica. Ciò deriva dal “sangue” che risale alle radici della commedia dell’arte e a quel passaggio cruciale dal grottesco puro al grottesco nero, spettrale, tragicomico. Ma se Eduardo si inscrive in una tradizione, la sua cifra precipua risiede in una preveggenza che connette tradizione e innovazione.

Non si tratta solo del suo lato metateatrale pur presente (basti pensare ai secondi atti di Questi Fantasmi, e di Le voci di dentro, o a intere commedie come Il cilindro o L’arte della commedia), ma essenzialmente della sua capacità di rendere “quotidiano” il “meraviglioso”, di far rifluire il virtuale nell’attuale. Un versante feerico che risale alla traumatica sua “entrata in scena” da bambino, vestito da cinesino, tra le braccia di un attore al Teatro Valle nella messinscena proprio di una feerie, di una commedia fantastica, in cui il “magico” Oriente assumeva il valore esotico e atopico dell’isola shakespeariana de La tempesta (non a caso scelta da Eduardo come suo lascito ideale, nella traduzione in lingua barocca e favolistica, un napoletano dal suono magico).

Sembrerebbe che Lluís Pasqual nel mettere in scena La grande magia (prodotto dal Teatro Stabile di Napoli e ora in tourneè) abbia tenuto presente soprattutto il versante metateatrale. Eppure la luce iridescente, il sapore tra il burlesque e il feerico, l’irruzione tra il pubblico di un gruppo di cantanti e suonatori da fiera, l’incantamento che si attaglia e si espande sempre di più, anzi si insinua letteralmente tra le quinte del palcoscenico, che intride e moltiplica i velluti del sipario, la palandrana orientale di cui si ammanta, o il sarcofago egizio di cui fa uso, il mago-illusionista Otto Marvuglia (qui uno stralunato, serpentino, ectoplasmatico Nando Paone), i trucchi e i ceroni da luci della ribalta chapliniane, paiono restituire in parte l’atmosfera fantastica da cui deriva il fascino profondo di questa commedia.

Certo il mago è figura ricorrente e archetipica su cui si modella un nucleo di fondo del teatro eduardiano, e dove si gioca un motivo fondamentale del suo teatro: il dissidio tra illusione e scetticismo portato fino agli estremi. Quelli da un lato della disperazione sarcastica, nera e a volte macabra (come in Il contratto, con il taumaturgo mezzo angelo sterminatore e mezzo diavolo giustiziere, Geronta Sebezio) e dall’altro di una realtà trasfigurata, allucinata, che fa irrompere l’onirico e arriva a pervadere di “apparizioni” virtuali tutto il dispositivo “realistico”, tutta la (falsa) elegia del quotidiano. E che sembra conferire, come ne La grande magia, all’atto di fede, al “credere” nell’immaginazione, insomma nelle immagini, un potere salvifico, una potenza quasi redentiva: aprire una via di reviviscenza e di resurrezione affidata tutta all’umano, o meglio allo “sforzo disperato che compie l’uomo nel tentativo di dare alla vita un significato” e che, affermava Eduardo, è teatro.

Nello spettacolo questo sforzo disperato, che sfuma nella caparbia e affannosa visione di una “apertura” della vita e del tempo che passano (apertura che può renderli eterni), è tutto affidato all’isolamento da “uomo ridicolo” dostoevskijano conferito al personaggio di Calogero Di Spelta. E l’interpretazione dolorosa e tutta irriflessa, melanconica e amara di Claudio Di Palma, traduce come in un controcanto la chiave registica, che invece è fatta di riflessi, specchi, vetrate, sipari, retroscene, suppellettili, totalmente e fin astrattamente teatrali. In tal senso Pasqual è perfettamente “artefice” in toto dello spettacolo, suoi i costumi e le scene e par di capire l’intera chiave luministica e la veste musicale. Nello spettacolo non si esce dall’interno epitomicamente teatrale, ma tutto è scena, esplicitamente.

Il secondo atto, dove l’ambiente è la casa del mago, è racchiuso dietro le quinte, è il retroscena (come il “doppio fondo” della gabbietta degli uccellini, che è insieme vita, morte, sogno) della scena che abbiamo visto frontalmente, quella dell’Albergo con l’esterno-interno della terrazza-salone (che diventa palcoscenico del gioco di prestigio). Così come avvolto da pareti fatte di fluttuanti sipari rossi è il terzo atto della casa di Calogero, invecchiato e perso dietro le apparizioni delle immagini cui ha ridotto, insieme amplificandolo, il tempo, i bisogni e le cose stesse. È in questa chiusa che lo spettacolo arriva al suo momento di intensità, amalgamando il gioco delle scatole (cinesi) che è riversato sulla scena, tautologicamente, con la postura e la recitazione di Di Palma, quell’attitudine china in una sorta di “oscuro scrutare” dentro con il desiderio irrefrenabile del fuori, di una luce fuori dalle cortine e dalle pareti.

E qui emerge maggiormente la funzione bifronte dei due protagonisti-deuteragonisti, Otto e Calogero: due “isolamenti” simmetrici, introflesso ed estroflesso. E in questo epilogo l’interpretazione, con un dinoloccamento alla Groucho Marx che si scioglie in mesto sberleffo, di Paone, sottolinea una “solitudine” tanto metafisica che grottesca, tanto sapientemente incantatrice che disincantata. Perché Marvuglia è in un certo modo l’ombra onirica, la voce di dentro, del marito scettico e illuso a un tempo, tradito eppure illusoriamente fedele alla immagine della moglie, così come a una allucinata visione della vita stessa come immagine, come “scatola di immagini”.

Molto procede nello spettacolo secondo un pensiero insito, e preveggente, in Eduardo: quello di un mondo fatto immagine. Nella scena del secondo atto la quarta parete teatrale che si fa trasparente e diventa “mare”, è palesemente una doppia allusione, all’”ipnotismo” delle folle (che l’ambientazione negli anni trenta delle dittature enuclea) e al cinema, allo schermo come arma a doppio taglio: la scatola è anche la camera, le immagini sono le ombre che gli schermi che ci circondano restituiscono, il pubblico è inscritto nell’illusione e coopera con essa. Ecco: in La grande magia, forse il nucleo segreto e profetico è proprio questo: quanto noi stessi cooperiamo alla derealizzazione del mondo e come noi stessi possiamo in un certo senso reincantarlo.

Marvuglia si presenta come esperto della saggezza tutta induista del “terzo occhio”. Un filosofo contemporaneo, Paulo Barone, adopera in un libro recentissimo l’immagine indiana di Benares come condizione allegorica dove la contemporaneità si incontra con ciò che l’India definisce samskara, un “archivio sottile di impregnazioni residuali”:

Alla fin fine un semplice riflesso, una concomitanza inaspettata, o forse soltanto un impercettibile barcollamento: non più la forma consueta, ma l’immagine delle cose. Un modo d’essere inspiegabile, senza né capo né coda, che non si lascia raccontare o organizzare in una storia, né mettere a fuoco, lì dove il senso si sospende e la continuità lineare delle cose s’interrompe, il luogo d’elezione delle immagini (Barone 2019, p. 11).

Lo svanire delle immagini e insieme la fede in esse? I nostri stessi corpi come “scatole di immagini”? Ha scritto a tal proposito un alchimista francese, nostro contemporaneo:

La luce è già in noi, ma ogni volta che siamo stati stressati, contrariati, maltrattati fisicamente o psichicamente, si è creata una sorta di scatola, che è stata chiusa. Ovunque nel nostro corpo abbiamo delle piccole scatole chiuse che imprigionano la luce. Il lavoro consiste nell’aprirle, ma sono serrate da talmente tanto tempo che, quando si aprono, sprigionano un fetore difficile da tollerare. Sono demoni e scorie, cose marce e maleodoranti. Quando si parla di purificazione, si parla di aprire queste scatole e lasciar entrare l’aria. Ed è tanto più difficile in quanto vi sono altre scatole nelle scatole, come un gioco di matrioske (Burensteinas 2019, p. 65).

Possiamo immaginare paradossalmente che Eduardo abbia “trasmesso” al futuro, al finale di Pulp Fiction di Quentin Tarantino, quella misteriosa scatola da cui scaturisce la luce. La tela e la rete delle immagini, e il loro poter essere racchiuse e sprigionate dalla scatola-camera, di una scena o di uno schermo, è ciò di cui è tessuta la nostra contemporaneità, sospesa com’è tra il credere o l’illuderci, nel mondo.

Riferimenti bibliografici
P. Barone Benares, Atlante del XXI secolo, Nottetempo, Roma 2019.
P. Burensteinas, Un alchimista racconta, Edizioni Studio Tesi, Roma 2019.
R. De Gaetano, B. Roberti, a cura di, L’arte di Eduardo. Le forme e i linguaggi, Pellegrini, Cosenza 2015.

*Le immagini presenti nell’articolo e in anteprima sono foto di scena di Marco Ghidelli. Fonte: Teatro Stabile di Napoli.

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