Con Giurato numero 2 Clint Eastwood mostra una volta di più e con grande forza il fondamento mitico del suo cinema, confermando di essere oggi il rappresentante più importante della grande tradizione del cinema americano, e dunque dell’America stessa. Che a sua volta si determina come l’incarnazione più esemplare dell’ontologia e dell’etica occidentali. Detto altrimenti, l’ultimo film di Eastwood è per temi e modi espressivi una tragedia greca trasposta all’oggi, mascherata nella forma di un legal thriller.

L’anima mitica del cinema americano ha due poli. Uno orientato verso l’elaborazione di un intreccio (mythos), di una storia occasionata dal racconto di una tragedia quotidiana; un altro segnato invece dal grande personaggio (ethos) visionario ed oracolare, la cui megalomania sfida ogni tenuta dell’intreccio. Due grandi esempi oggi di tale polarità mitica sono Giurato numero 2 per la forza del mythos e Megalopolis per il tratto debordante dell’ethos.

Centralità dell’intreccio significa centralità dell’azione, da cui deriva il personaggio. In Eastwood il personaggio è sempre il risultato di ciò che ha fatto o non ha fatto, che fa o non fa, che potrebbe fare o non fare. E questo vincolo tra personaggio e azione è sempre un legame colpevole. La colpa assume diverse forme, ma è ineliminabile perché coincide con la costituzione del soggetto stesso nel momento in cui è proiettato nel mondo attraverso l’azione. Questa colpa può prendere la forma dell’innocenza infranta (Mystic River), del sentimento duro per ciò che nella vita si è fatto di sbagliato (Gran Torino), di una giovinezza vissuta alla ricerca, troppo intensa, di un riscatto dalla propria marginalità sociale (Million Dollar Baby). Poche sembrano le pause nella costituzione colpevole del soggetto dell’azione, e queste passano per i rari momenti contemplativi, come quelli del vecchio corriere della droga che trova pace ed accordo con il mondo,  contemplando la vita di sole ventiquattrore di un fiore (The Mule).

In Giurato numero 2 la colpa emerge – come nella tragedia greca – in forma radicalmente incolpevole, cioè non solo involontaria ma anche inconsapevole. La colpa viene scoperta e riconosciuta da Justin Kemp, marito in procinto di diventare padre, nel corso dell’azione, e la  “peripezia” narrativa riguarda l’effetto di questa scoperta sul personaggio e sui suoi sentimenti.

Siamo in Georgia, Justin è giurato in un processo ai danni di un uomo accusato di aver ucciso la ragazza alla fine di una litigata in un locale. Quella notte in quel locale c’era anche Justin, solo e sofferente perché proprio quel giorno la moglie aveva perso i due gemelli di cui era in attesa. Tornando a casa in automobile, Justin aveva investito qualcosa che aveva creduto essere un cervo. Una credenza che si era generata associando il cartello stradale che indicava il pericolo di passaggio cervi con il nulla che Justin aveva trovato scendendo dall’automobile, sotto una intensa pioggia, immediatamente dopo l’impatto.

Nel corso del processo, Justin scopre che quella notte non aveva investito un cervo, ma la donna del cui omicidio è accusato James, il ragazzo ora sotto processo. Questa scoperta arriva subito nel film, che non concede spazio alla detection. Justin scopre dunque che quella notte è stato lui ad uccidere la donna, investendola con l’automobile, senza volerlo.

Ma la volontà è una categoria moderna, entra in gioco con il Cristianesimo, per la classicità greca l’azione è colpevole solo per il fatto che è accaduta e per le conseguenze che ha determinato (come Edipo Re ci mostra): «Alla preminenza accordata dai moderni alla volontà corrisponde nel mondo antico un primato della potenza: l’uomo non è responsabile dei suoi atti perché ha voluto, ne risponde perché ha potuto concepirli» (Agamben 2017, p. 55).

Insomma, si è responsabili anche se innocenti, perché ogni azione nel momento in cui è attuata rimanda al soggetto che ha potuto compierla, responsabile comunque delle conseguenze di ciò che ha fatto anche senza saperlo.

Per questo l’azione – come ben sapeva l’Hegel dell’Estetica – determina sempre una scissione nel soggetto che la compie, che è allo stesso tempo innocente e colpevole (anche negli atti più efferati, che per chi li compie perseguono comunque un loro fine, sia pur malevolo).

Del lato colpevole dell’azione tratta la tragedia, di quello innocente la commedia. Certo, la commedia ha a che fare con colpe “minori”, la tragedia con colpe “maggiori”, che arrivano alla morte. Eastwood ha sempre raccontato di colpe maggiori, quelle tragiche.

La rivelazione della colpa di Justin si radica inoltre in uno stato colpevole del soggetto, che solo da poco ha superato seri problemi di alcolismo. Quando confessa al suo avvocato la sua colpa, ottiene come risposta che si beccherà trent’anni di galera con i suoi precedenti.

Justin non manifesterà con nessuno il suo essere colpevole, ma la sua colpa lo segnerà, lo perseguiterà durante tutto il processo. Quando si trattava di poter chiudere la faccenda condannando l’innocente James, sarà Justin stesso tra i giurati a non voler chiudere con il giudizio di colpevolezza. Vuole salvare un innocente, che però non lo è fino in fondo, perché anche lui ha un “essere” colpevole, avendo fatto parte in passato di gang violente. Ora è pentito del suo passato e di non aver seguito la ragazza dopo la litigata. Le avrebbe salvato la vita. I sensi di colpa sono anche per lui un rovello infinito.

Faith, pubblica accusa al processo e donna intransigente, sembra fare leva sul passato sporco dell’accusato per farlo condannare e potersene avvantaggiare anche a fini elettorali (sta per candidarsi a procuratore distrettuale). Usa ideologia e propaganda sulle violenze domestiche per una condanna esemplare. Vediamo spesso la donna accompagnata dall’avvocato difensore dell’imputato. Sono insieme non solo in tribunale, ma anche al bar, dove parlano, bevono e si confidano. Insieme costituiscono l’immagine della polarità che abita ognuno dei personaggi. Accusa e difesa insieme, a testimoniare la non totale colpevolezza né la pura innocenza di ognuna delle figure del film. La colpa assunta o elusa, e i sensi di colpa che assillano tutti i personaggi coinvolti, determinano un nodo tragico che causa dilemmi morali. Il dilemma morale è conseguenza della necessità sociale di trovare comunque un colpevole (un capro espiatorio) per la morte della ragazza.

Il dilemma tragico scaturisce dall’impossibilità da parte della società di accettare la casualità dell’incidente (Eastwood ci mostra che Justin sta nel locale con il bicchiere in mano ma alla fine non beve, quindi era sobrio al momento dell’incidente) e dunque di svincolare il soggetto dall’imputazione delle azioni compiute. Ma questo svincolo farebbe crollare tutto il castello del diritto, della colpa e della pena, e dunque della costituzione stessa del soggetto occidentale. Tale ipotesi viene radicalmente esclusa, come dice l’avvocato a Justin: “Non ci sarà pace fino a quando un colpevole non sarà trovato”.

L’impossibilità di riconoscere il carattere incidentale della morte è legata all’impossibilità di lasciare fluttuare una colpa senza personalizzarla. Ma ciò ha come conseguenza l’impossibilità di ogni giustizia, come conclusione del percorso di accertamento della verità. Per Eastwood la giustizia, simboleggiata dalla statua della dea Themis, con bilancia e spada, più volte inquadrata, di fatto è effetto di atti parziali, false credenze generate da posizioni sociali, interessi, umori: l’accusa ha interesse a colpire quel maschio dal passato poco nobile, passato che ha segnato anche le vite di alcuni giurati che colgono l’occasione per vendicarsi ecc.

Insomma, una volta che si precipitati nel tragico dell’azione, nella morsa del diritto, resta solo lo spazio per assegnazione di colpe diffuse e personalizzate anche se non vere. Colpe che concernono quello che si è (stati) e quello che si fa (si è fatto). Colpe che conducono il soggetto ad affrontare dilemmi irresolubili. Saranno i dilemmi della volontà, quelli in cui si dibatterà Justin: vuole in qualche modo salvare l’uomo ingiustamente accusato, ma vuole salvare anche se stesso. La cosa si rivelerà impossibile. La sua volontà non basterà a far seguire al riconoscimento di quanto è accaduto la manifestazione pubblica della verità.

Justin sceglie di salvare se stesso, condannando di fatto a vita l’altro. Lo vediamo, dopo la proclamazione della sentenza, sulla panchina parlare con Faith, che aveva iniziato ad intuire quale fosse la verità delle cose. Justin le fa capire che rivelare come siano andate veramente le cose significherebbe condannare entrambi, lui al carcere, lei all’insuccesso e al fallimento elettorale. Faith sembra riconoscere che mantenere il silenzio conviene anche a lei.

Nell’ultima scena vediamo Justin con la moglie giocare a terra insieme al figlio (è dunque passato del tempo), quando suonano alla porta. Apparirà Faith con sguardo fisso e sbarrato. Due rapidi e brevi carrelli verso il volto di lei e verso quello di lui chiuderanno il film. Immaginiamo ciò che accadrà, anche se Eastwood non ce lo fa vedere. Capiamo che viene a completamento l’attraversamento che il film compie dei modi dell’ontologia occidentale: dalla «potenza» alla «volontà» alla «necessità» (Agamben 2017, p. 82).

Non si poteva far altro che fare ciò che Faith farà perché, se la giustizia è sempre impossibile e mancata, c’è una ingiustizia radicale da evitare, quella di lasciare un innocente marcire in galera. E se il soggetto da solo non ce la fa a farsi carico della verità, perché l’eroe tragico si è trasformato ora nel prosaico padre di famiglia americano, sarà l’altro ad obbligarlo a tale atto. Sarà Faith a sanare la scissione di Justin, e il suo stesso senso di colpa, con l’unica azione che era necessario fare per liberare un innocente. Anche se gli effetti saranno comunque quelli di condannare ad una lunga pena un uomo senza vera colpa.

Eastwood con Giurato numero 2 raggiunge uno dei vertici del suo cinema, mettendo in scena le aporie tragiche dell’azione e i nodi indistricabili della colpa. La condizione tragica dell’individuo non è episodica ma ontologica, e coincide con il punto in cui inizia anche la sua presenza al mondo, cioè l’azione stessa. E se, come ci dice Goethe nel Faust, «In principio era l’azione», Eastwood ci dice che in principio era anche la colpa. Il Cristianesimo ha sanato tutto questo con l’emendazione personale delle colpe e la redenzione (Gran Torino), ma quando questa non è possibile resta solo la colpa tragica, la colpa incolpevole, senza giustizia possibile, quella che prende la forma del destino. Il soggetto tragico deve comunque saper accogliere questo destino, farne la sua necessità.

Riferimenti bibliografici
G. Agamben, Karman. Breve trattato sulla colpa, l’azione e il gesto, Bollati Boringhieri, Torino 2017.

Giurato numero 2. Regia: Clint Eastwood; sceneggiatura: Jonathan Abrams; fotografia: Yves Bélanger; montaggio: David S. Cox, Joel Cox; interpreti: Nicholas Hoult, Toni Collette, J. K. Simmons, Chris Messina, Zoey Deutch, Cedric Yarbrough, Kiefer Sutherland; produzione: Dichotomy Films, Gotham Group, Malpaso Productions; distribuzione: Warner Bros.; origine: Stati Uniti d’America; durata: 114’; anno: 2024.

Share