“Solo il tempo non si può comprare” è una delle ultime battute di Earl Stone, interpretato dallo stesso Eastwood, divenuto, da vecchio, corriere della droga per il cartello messicano dopo aver fallito nella vita privata e lavorativa. Che significa fallire? Quand’è e com’è che una vita fallisce? Una vita fallisce e porta il senso del fallimento quando non corrisponde alle aspettative sociali. Falliamo quando non siamo conformi al posto che ci viene e che ci siamo assegnati.
Earl Stone non è stato un buon marito, né un buon padre, forse parzialmente un buon nonno, perché è stato assorbito dal suo lavoro, coltivare fiori. Strano lavoro. Un prendersi cura di qualcosa la cui vita è allo stesso tempo meravigliosa e breve. Qualcosa il cui splendore non è nonostante, ma proprio per la sua fuggevolezza. Ha mancato il suo ruolo familiare (responsabilità, impegni, tessitura morale del tempo) per coltivare fiori, chino a terra con il suo cappello a vedere l’apparire e lo scomparire della bellezza fugace.
Ma in quell’apparire e scomparire dei fiori c’è un’immagine del tempo e della vita stessa più intensa. Quel fuggire dalle responsabilità, quell’essere socialmente inadempiente, è e non è del tutto colpevole. Da un lato lo è, perché il soggetto si sottrae al patto sociale dell’assegnazione e distribuzione di compiti, ma allo stesso tempo non lo è perché la società è il dispositivo più potente di immunizzazione dalla vita. La modellizzazione sociale in cui la vita prende forma è lo stesso dispositivo che mette a distanza la vita stessa; che emerge invece e proprio negli scarti imprevedibili, nelle inadempienze, nel non trovarsi mai lì dove si dovrebbe. Sono gli stessi scarti che compie Earl nel portare la droga a Chicago.
Nei diversi ripetuti viaggi che il film scandisce con le didascalie che li contano, Earl cambia strada, si ferma, aiuta “negri” rimasti in panne, dialoga con “lesbiche”, e soprattutto, attraversando in macchina un paesaggio che non è mai lo stesso, ascolta musica e canta. In questo viaggiare e cantare di un vecchio, c’è l’accordo del soggetto con il mondo e con il tempo, al di là di ogni compito assegnatogli, di ogni inadempienza e di ogni colpa. Questa capacità di scartare viene riconosciuta anche dal capo messicano, Andy Garcia, che dice ai suoi scagnozzi che cambiare sempre strada aumenta le possibilità che il corriere non sia rintracciato.E nell’ultima deviazione compiuta, quella per andare al capezzale della moglie morente, Earl, facendo quello che assolutamente non andava fatto per il nuovo boss del cartello (che uccide e soppianta Garcia), appunto deviare, si riconcilia con la donna e la famiglia. Quando marito e moglie si confessano il loro reciproco amore nonostante tutto, attraverso distanze e mancanze, di fatto recuperano il tempo della loro vita passata, presente e anche futura, come le dice Earl. Questa riconciliazione prende non tanto la forma di un perdono generalizzato, quanto quella del riconoscimento del carattere innocente della vita, che la contemplazione e la coltivazione dei fiori manifesta. E che sospende il carattere giudicante della morale sociale e il vincolo dei patti, che però Earl non misconosce del tutto.
La deviazione per l’ultimo saluto alla moglie e il funerale comportano il tradimento di un esplicito patto con i messicani. Earl non si sottrae al pagamento del prezzo, sa che deve pagare, ma a quel punto sono i messicani a risparmiarlo: riconoscono nel gesto di Earl il tratto umano di un dovuto atto d’amore. Earl diserta gli obblighi e i patti (pur essendo un reduce di guerra) e in questo incontra la vita nella sua imprevedibile estemporaneità. Di questo incontro porta traccia il suo errare anche incosciente (scopre solo ad un certo punto cosa sta trasportando), il suo disperdersi in incontri mondani o divertendosi con (ilari) prostitute. In quell’errare c’è anche un dilapidare, e in entrambi i casi la vita emerge nella sua temporalità improduttiva, l’unica a restituircela veramente. Ed è questa vita che transita in Earl a colpire chi gli sta intorno, pronto a perdonargli di fatto le sue inadempienze più di quanto non faccia lui con se stesso (come la confessione finale, durante il processo, esplicita). Anche l’agente di polizia Colin Bates (Bradley Cooper), che sta sulle sue tracce e con cui scambia in un bar alcune battute sulle dimenticanze degli obblighi familiari, gli sta vicino al momento dell’arresto.
Se il valore sociale di Earl aumenta perché il possesso di denaro gli permette di “comprarsi” e riprendere relazioni sia familiari che comunitarie (dà un contributo per la riapertura del circolo dei reduci di guerra), c’è qualcosa che non si può comprare, ed è il tempo. È lo scambio impossibile tra il denaro e il tempo, quello che segna le vite di chi il denaro ce l’ha, ma che di tempo da vivere ne ha comunque poco. Il tempo non è acquistabile, al massimo può essere redento, aperto, riconosciuto nella sua transitorietà. Ma redimere il tempo, incontrare la vita, significa al fondo smettere di giudicarla. Collocarla oltre la morale e il giudizio, semplicemente contemplarla e curarla come si cura un fiore che vive solo un giorno.Redimere il tempo significa liberarlo, svincolarlo dai suoi legami con l’azione e la sua imputazione ad un soggetto: ogni volta che si imputa tutto precipita. Era già la straordinaria forza di un film, incompreso, come Ore 15:17 – Attacco al treno. Ed è la meraviglia di un film come Il corriere – The Mule, dove se all’azione e alla sua imputazione non ci si può fino in fondo sottrarre, perché crollerebbe tutta l’impalcatura ontologico-politica occidentale (la cui genesi la troviamo in Aristotele), c’è un momento in cui la vita si rivela nel suo carattere infondato. Quello che sbrigativamente viene classificato come l’anarchismo di Eastwood è l’immensa libertà di sentire e mettere in immagine questo momento, trovarlo al fondo di un’azione improbabile (trasportare droga) o colpevole (inadempienze sociali). Coltivare un fiore che vive ventiquattr’ore significa rendere di fatto il proprio operare inoperoso (per dirla con Agamben), minare alle fondamenta ogni produzione, restare nella cura contemplativa di una natura meravigliosa ed evanescente, come la vita di tutti.
E se lo scheletro del film mette in gioco polizia, narcotrafficanti, indagine, dunque tutto ciò che segna un film d’azione, noi vediamo allo stesso tempo il carattere fortemente approssimativo (quasi macchiettistico il modo in cui vengono restituiti i messicani) di tutto questo, perché al centro del film c’è il personaggio di Earl Stone. Innocente, vicino ad una “idiozia” quasi dostoevskiana per il modo in cui attraversa i piaceri (mondani) e manca ai doveri (morali), segnando e condizionando tutti i personaggi che gli stanno intorno, Earl è forse il più potente degli intercessori di Eastwood (che negli ultimi film, a partire da American Sniper, passando per Sully, Ore 15:17 – Attacco al treno per giungere a quest’ultimo, si è fatto intercedere da fatti di cronaca che hanno coinvolto l’americano medio).
L’interpretazione di Eastwood, che lo restituisce in tutti i segni marcati della vecchiaia, dai solchi del viso all’incedere lento, al piegarsi del corpo su se stesso, conferma che la libertà di visione di Earl sulla vita serve ad Eastwood per generare una altrettanto forte libertà espressiva. Che, passando da tutta una serie di riferimenti a film precedenti (a partire da Gran Torino, sceneggiato come quest’ultimo anche da Nick Schenck), è capace di mescolare drammatico e commedico, non nella forma pacifica dell’alternanza, ma in quella più originale dell’intreccio. La vita si ritrova felice quando, al fondo del registro drammatico legato ad un agire colpevolmente inadempiente, ritroviamo il commedico della riunificazione familiare e sociale. Certo, i due registri sono indissociabili, così come la vita che nella sua medietà non può essere del tutto liberata da un contrassegno “morale” che la orienta e la giudica, predisponendola al dramma (in definitiva è la storia del cinema americano), ma che al suo interno è abitata dalla possibile “commedia” della riunificazione.
Qui la commedia ultima però non è solo quella capace di convertire la fuga e l’elusione di un uomo in un riconoscimento finale familiare. Qui la commedia è più radicale, e va oltre il momento sacrificale della rinuncia alla vita libera per riconquistare comunque tutto (una sorta di terzo stadio “religioso” kierkegaardiano, che subentrerebbe a quello “etico”, in analogia con il finale di Gran Torino). Qui è l’accordo dell’uomo con se stesso e con il mondo, che nel carcere viene ritrovato dalla “inoperosità” del coltivare e contemplare fiori, la cui bellezza è destinata a durare solo un giorno.
Con quest’ultimo film, commovente per la sua libertà di sguardo e d’espressione, Eastwood arriva a destituire dall’interno del cinema d’azione il senso dell’azione stessa, ritrovando la vita – la sua possibile felicità – in un accompagnare con cura e contemplazione la bellezza di ciò che è destinato a non lasciar traccia, a non farsi mai opera, ma ad essere il semplice nascere e morire di ciò che vive.
Riferimenti bibliografici
A. Canadè, A. Cervini, a cura di, Clint Eastwood, Pellegrini, Cosenza 2012.