Dall’inizio di ottobre 2021 gli spettatori italiani hanno la possibilità, e la fortuna, di vedere in sala nientemeno che Fino all’ultimo respiro (1960, À bout de souffle) di Jean-Luc Godard. Si tratta dell’edizione restaurata da StudioCanal e CNC presso il laboratorio “L’Immagine Ritrovata” della Cineteca di Bologna, già presentata nel 2020 all’interno del festival “Il Cinema Ritrovato” per i sessant’anni del film e che ora, in omaggio a Jean-Paul Belmondo, recentemente scomparso, la Cineteca ha scelto per inaugurare la nuova stagione del suo progetto “Il Cinema Ritrovato. Al cinema”, che riporta in sala grandi classici restaurati.

Quali delle cose che informano l’identità storica, estetica, culturale di Fino all’ultimo respiro andremo dunque soprattutto a vedere e a rivedere in sala? Meglio: quante cose è Fino all’ultimo respiro? E quante di queste cose, che hanno impegnato generazioni di cinefili, di critici, di storici, di studiosi, di studenti, prodotto fiumi di pensieri, di pagine, di discorsi, modellato sguardi e visioni e segnato per sempre la storia del cinema, si vedono ancora bene, a distanza di tanto tempo dalla detonante apparizione del film?

Prima vera impressionante declinazione audiovisiva, dopo le prove corte, della sterminata meditazione, tutt’ora in corso, sul cinema e sulla sua capacità di dire la vita, di uno dei più grandi artisti del XX secolo e dell’inizio del XXI, emblema tra i più potenti, sicuramente tra i più celebri, del cosiddetto cinema moderno, film-bandiera, con I quattrocento colpi, della Nouvelle Vague francese, e ancora segno marcatissimo, il più plateale e il più sfrontato, di un ampio, stratificato rivolgimento del linguaggio cinematografico che per vie tra loro assai diverse (Roma città aperta e il neorealismo da un lato, Quarto potere dall’altro) era già stato avviato e che con i giovani dei “Cahiers” passati all’atto, e con i loro amici della riva sinistra, trovava la sua più consapevole manifestazione, Fino all’ultimo respiro è tutte queste cose e molte altre ancora e come accade a tutti i grandi capolavori, è già sempre un’opera e i discorsi che l’accompagnano, un testo e la sua critica, l’arte e la teoria dell’arte, come proprio diceva, en critique, riconoscendo l’assunto nei film che amava, un giovane Jean-Luc Godard.

Mi guarderò bene, allora, anche solo dal provare a enumerare tutte le cose che il film si è fatto capace di dare al cinema e ai discorsi sul cinema e in occasione di questa sua imperdibile apparizione in sala proverò invece a prendere da Fino all’ultimo respiro soltanto tre di quelle cose, da “rubargli” e da tenere strette e portare con sé, per il presente e per il tempo che viene. Si tratta nell’ordine di un’idea, di un sentimento e di un’inquadratura.

La prima è un’idea del cinema (e insieme, ovviamente, un’idea del mondo, a volersi accordare con la felice levità della nota affermazione di Truffaut). Il suo nucleo più propriamente speculativo non è che il centro della grande riflessione di Bazin, che aveva pienamente compreso il carattere duale dell’immagine filmica analogica: essa è allo stesso tempo trascrizione di un dato sensibile ed elaborazione della sua forma; è già sempre documentaria (è un’imbalsamazione di una parte di mondo colta nella sua durata) e già sempre finzionale (è un artificio, il dispiegamento di un linguaggio, l’azione di un immaginario che, dice Bazin, si nutre della realtà cui progetta di sostituirsi). Realtà e immagine, imbalsamazione e linguaggio, documento e finzione si dispongono in un rapporto di coalescenza. Con Bazin, i jeunes turcs nei loro scritti leggono a partire dal binomio realtà-immagine la coappartenenza di documentario e finzione, su cui molto insistono – Godard lo fa più di tutti – e la Nouvelle Vague, così variegata nelle sue manifestazioni, trova probabilmente proprio nella piena coscienza di questa coappartenenza, meglio, nella sovraesposizione dell’una (la realtà, la documentalità) e dell’altra polarità (la forma, la finzionalizzazione), nella valorizzazione discorsiva della loro reciprocità, pur con tutte le differenze di grado e di stile, da film a film e da autore a autore e con la riva sinistra a pensare in termini politici e testimoniali ciò che la riva destra pensava in termini fenomenologici, il suo principio federatore. Questa sovraesposizione presenta con Godard la sua manifestazione più radicale: Fino all’ultimo respiro, da questo punto di vista, ne è un magnifico manifesto, con le sue strade in cui brucia l’ottuso continuare del sensibile e la sua poderosa articolazione formale che, nel suo insieme, frantumava tutta intera una retorica cinematografica. Tanto per fare un singolo esempio, il mosso e intenso long take – poco prima che Michel conduca Patricia all’appuntamento col giornalista – che accompagna i due giovani in mezzo alla vita indeterminata, alla vita senza nome, ai passanti che guardano in macchina e punteggiano ovunque l’inquadratura, ne è una potente modellizzazione.

La seconda è un sentimento del cinema e precisamente il sentimento di libertà con cui, qui e nella Nouvelle Vague tout court, il cinema è pensato e praticato. Impressiona davvero ancora oggi, a tanti anni di distanza – è il suo tratto senz’altro più vistoso –, l’incondizionata libertà immaginativa, tecnico-formale, espressiva e in senso ampio elaborativa che a livelli diversi informa Fino all’ultimo respiro. Rossellini e Renoir, naturalmente, per i turcs, avevano soprattutto ispirato un sentimento di libertà pienamente accordato a uno stile, un sentimento che, al di là dei modelli, più in generale muove, come tante volte è stato scritto, la gran parte dei film della Nouvelle Vague. Ma anche in questo caso, la condivisione di un assunto con l’insieme del movimento si componeva in termini di radicalità: la permanente e quasi sistematica trasgressione della regola è la regola e la potenza della scrittura del film, del tutto libera – «Facciamo vedere che tutto è permesso», dirà Godard – di comporsi nei modi e nelle forme più diverse. E tuttavia in Fino all’ultimo respiro, come poi sempre in Godard, la libertà è già intimamente legata a uno stratificato rigore formativo, a un senso severo, calibratissimo della scrittura. La poderosa dimensione entropica della formatività godardiana – di cui l’uso sistematico o perfino totalizzante della citazione è la cifra più evidente –, non si dà se non in quanto inscritta in un compiuto controllo della composizione. Anche di questo Fino all’ultimo respiro, lo si sarebbe compreso meglio più tardi, si configurava come un segno inaugurale.

Tra un’idea del cinema e un sentimento del cinema si situa infine, lo dicevo, un’inquadratura: vi compare un giovane, giornale in mano, lunettes noires e pipa in bocca, magro ed elegante, che guarda fuori campo. È Godard, nella sua celebre apparizione nel film. Non ha ancora compiuto ventinove anni. Si sporge e guarda verso Poiccard. Alla notizia della scomparsa di Belmondo, tra molte altre, mi si è fatta avanti questa immagine di Godard giovane, che lo guardava, lì nella finzione, per indicarlo alla polizia, ora – trasformata nella mia mente come in un processo di morphing, col grande cineasta affaticato nel corpo e nella voce dal peso degli anni, ma sempre nell’atto di sporgersi e guardare – per proteggerlo, come ha detto più volte dei suoi compagni di cinema scomparsi. Ma in quella inquadratura, più in generale, c’è lo sguardo di Godard. Da quella tarda estate del 1959, in cui il film fu girato, al più recente lungometraggio del regista, Le livre d’image (2018), quello sguardo ha modellato sessant’anni di cinema e inciso un segno profondissimo nella sua storia, senza mai smettere un solo istante di estendere per ogni via, nel segno di un’inesauribile sperimentazione, di un’infaticabile ricerca, una meditazione, cominciata con la cruciale esperienza della pratica critica nel decennio 1950, sull’identità del cinema e sulla sua capacità di abitare il mondo. Per Godard, come per tutti i grandi moderni, da Rossellini a Resnais, da Antonioni a Herzog, ecc., guardare il mondo significa proiettare su di esso un desiderio e far tornare in immagine, diceva Daney, la sua qualità morale.

Di questo sguardo – della lezione altissima e irripetibile di quella leggenda del cinema che è JLG – il cinema del nostro tempo e del tempo che viene ha davvero bisogno. Come ha bisogno di libertà e di rigore. E di continuare a trovare nel suo rapporto col mondo, nella sua capacità di dire la vita, come una parte ampia e importante del cinema contemporaneo dimostra in più modi di voler fare, il nucleo incandescente delle sue invenzioni.

Fino all’ultimo respiro. Regia: Jean-Luc Godard; soggetto: François Truffaut; sceneggiatura: Jean-Luc Godard; fotografia: Raoul Coutard; montaggio: Cecile Decugis, Lila Herman; scenografia: Claude Chabrol; musiche: Martial Solal; interpreti: Jean-Paul Belmondo, Jean Seberg, Daniel Boulanger, Henri-Jacques Huet, Roger Hanin, Claude Mansard, Liliane Dreyfus, Jean-Pierre Melville; produzione: Les Productions Georges de Beauregard, Société Nouvelle de Cinématographie; distribuzione: Euro International Films; origine: Francia; durata: 90′; anno: 1960.

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