Una pin-up di spalle disegnata dentro un riquadro vuoto, una bambola tra le mani raccolte dietro la schiena, la testa voltata: guarda verso di noi, da dietro una spalla. È la prima pagina di un giornale umoristico per uomini, “Paris Flirt”, segnatamente quella del numero 137 del 12 settembre 1959. La pagina riempie pressoché per intero l’inquadratura. Sopra l’immagine (o sotto, perché chi parla è dietro il giornale) la voce di Michel Poiccard…

Comincia così, lo sanno tutti, la rivoluzione fiammeggiante, radicale, plateale di Fino all’ultimo respiro. E comincia così, per davvero (dopo i corti degli anni 1955-1958), con questa inquadratura saturata da un giornale, l’inaudita carriera, tuttora in corso, di uno dei più grandi creatori di immagini del XX (e XXI) secolo, Jean-Luc Godard. Che cosa è dunque questa immagine, la prima del primo, leggendario lungometraggio di Godard?

Essa è prima di tutto un muro: in barba a ogni regola dell’establishing shot posta in cima alla sequenza (e, in particolare, in cima al film), per orientare, secondo la retorica hollywoodiana, l’attività inferenziale di chi guarda, Fino all’ultimo respiro comincia con l’ostruire lo sguardo dello spettatore, cui nega l’immediato orientamento spaziale e la simultanea corrispondenza di volto e voce. Di più: il soggetto che appare nella zona centrale dello schermo, la figura femminile disegnata, guarda di fatto in macchina. Il muro cala (il giornale si abbassa), compare la faccia da noir di Belmondo che fuma, guarda di lato, si passa il dito sulle labbra, ma la fatica ermeneutica dello spettatore moderno trova qui una delle sue cifre più limpide. In questo senso, la prima immagine del primo Godard è la figura di un rivolgimento linguistico.

E tuttavia questo muro è appunto l’immagine di un’immagine. Dentro l’inquadratura c’è un’altra inquadratura, quella della pin-up voltata di spalle. Certo che richiama Patricia, ma c’è dell’altro, in verità, da vedere. Disposte una sotto l’altra, sui due lati della pagina (e dell’inquadratura), ci sono altre immagini: le vignette umoristiche che contornano la figura della ragazza, ulteriori inquadrature nell’inquadratura. Mai un’immagine unica, sempre almeno due immagini, avrebbe detto più tardi Godard (e Daney gli avrebbe fatto eco, da par suo). Inoltre – Godard non può non averlo notato –, le immagini disposte in colonna somigliano molto evidentemente a una pellicola cinematografica, così come, tutta intera, la copertina-schermo che le contiene.

Insomma, la prima immagine di Fino all’ultimo respiro è una figura del cinema. Nei primi secondi del suo primo lungometraggio Godard fa quello che farà sempre: parla del cinema e della sua natura. E del suo costitutivo rapporto col mondo. Perché – la cosa è fondamentale – quella immagine Godard l’ha trovata il giorno delle riprese dell’inquadratura in questione. È la prima pagina di “Paris Flirt” acquistato prima di girare (anche se il regista aveva già subito stabilito che Michel avesse in mano una copia, ma quale?, di quello stesso giornale) e di cui, progettando il film (rielaborando il soggetto fornitogli da Truffaut), non poteva conoscere il contenuto.

È il lavoro della contingenza che determina, di fatto, l’impianto figurativo dei primi istanti di Fino all’ultimo respiro. In questo senso, quella che apre il film è una figura del cinema di Godard e di tutto il cinema moderno. Che ha messo al centro dei suoi pensieri il rapporto fondativo, ineludibile, tra il farsi del sensibile e il dispiegarsi della forma. Tra la vita e la messa in forma della vita. Che è quello che il cinema è sempre stato.

Fino all’ultimo respiro. Regia: Jean-Luc Godard; soggetto: François Truffaut; sceneggiatura: Jean-Luc Godard; fotografia: Raoul Coutard; montaggio: Cecile Decugis, Lila Herman; musiche: Martial Solal; interpreti: Jean-Paul Belmondo, Jean Seberg; produzione: Les Productions Georges de Beauregard, Société Nouvelle de Cinématographie; distribuzione: Euro International Films; origine: Francia; durata: 90’; anno: 1960.

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