«Il brutto più seducente del cinema», «l’icona della Nouvelle Vague», «l’ultimo playboy», «il duro dal bel sorriso». Questo e altro è stato Jean-Paul Belmondo, la cui morte – sui social network – ha fatto molto più rumore di quella, avvenuta poco più di un anno fa, di Michel Piccoli, e ciò in virtù di un atout che non ha nulla a che fare con la recitazione, ma è componente fondamentale di ogni star: la popolarità. Basta sfogliare la lunga lista dei film targati “Bébel” disponibili su Netflix France per rendersi conto di come, nell’immaginario collettivo transalpino, il criminale di Godard (Fino all’ultimo respiro, 1959) e l’innamorato fou di Truffaut (La mia droga si chiama Julie, 1969) – forse i due personaggi più noti ai cinefili italiani – occupino un posto decisamente meno rilevante rispetto a quello riempito dall’avventuriero impavido immortalato da Philippe de Broca (L’uomo di Rio, 1964; Cartouche, 1962; Come si distrugge la reputazione del più grande agente segreto del mondo, 1973), Henri Verneuil (Weekend a Zuydcoote, 1963), Eduard Molinaro (Caccia al maschio, 1964) e Jacques Deray (Rapina al sole, 1965), per citare solo sei dei numerosi film alimentari interpretati dall’ex-allievo del Conservatoire d’Art Dramatique di Parigi.

I maschi fragili incarnati per Godard – dal fidanzato geloso di Charlotte et son Jules (1958) al suicida pentito di Il bandito delle ore undici (1965) – sono ben presto sostituiti da un tipo che, come il protagonista di L’uomo di Hong-Kong (De Broca, 1965), piace perché è prestante, vincente e talmente bisognoso di avventura da meditare il suicidio pur di porre fine a una vita tanto agiata quanto noiosa. «Era l’immagine della vitalità» ha detto pochi giorni fa Claudia Cardinale, e il Belmondo più conosciuto e amato dal grande pubblico è proprio questo, l’instancabile cascadeur capace – come si vede in L’uomo di Rio – di guidare qualsiasi mezzo di trasporto (dalla bicicletta all’aeroplano) e soprattutto di infondere al film l’energia survoltata di un corpo in continuo movimento.

Per l’ex-pugile figlio di uno scultore e di una ballerina recitare significa non solo citare – come fanno Michel Poiccard imitando i tic di Humphrey Bogart (Fino all’ultimo respiro) e François Merlin parodiando James Bond (Come si distrugge la reputazione del più grande agente segreto del mondo) – ma anche portare sullo schermo se stesso, le proprie pulsioni e il proprio piacere nell’eseguire gesti squisitamente atletici come la corsa, il salto o la scazzottata. Altri elementi fondativi della persona di Belmondo – una persona decisamente più classica che moderna – sono l’ottimismo e la gioia di vivere, stati d’animo evidenti nelle maschere indossate per De Broca e Verneuil ma decisamente poco comuni al personaggio-tipo del cinema moderno, il quale – come confermano anche i vinti interpretati per Godard e Truffaut – è invece di norma apatico, indolente e inconcludente.

Tra gli attori francesi che, nella prima metà degli anni sessanta, fanno la spola tra i set della Nouvelle Vague quelli del nostro cinema, Belmondo è sicuramente uno dei più concupiti dal pubblico femminile e il più ricercato dai paparazzi, non fosse altro per la tipologia di virilità incarnata: un playboy per nulla fluido ma esplicitamente eterosessuale, lontano anni luce dalla malinconia di Jean-Louis Trintignant e privo di quella bellezza androgina che contraddistingue l’eterno rivale Alain Delon, compagno di un viaggio che, almeno sino all’inizio degli anni ottanta, ha visto i due alfieri dello stardom transalpino alternare senza soluzione di continuità il cinema d’autore a quello di genere. «Quando passava per via Condotti – ha ricordato di recente l’ex-paparazzo Rino Barillari – fermava il traffico. Le donne erano tutte innamorate di lui. Non se ne lasciava sfuggire una».

Un’immagine, quello dello sciupafemmine virile e passionale, rafforzata anche da una celebre affermazione di Edith Piaf, incapace di scegliere tra i due modelli di maschilità: «Esco con Delon ma torno a casa con Belmondo». Se Delon è dunque un oggetto, bello e raffinato come un collier da esibire, Belmondo è innanzitutto e soprattutto un corpo, o meglio il «prototipo corporeo» (Nacache 2012) di un maschilità – ripetiamo – moderna rispetto a quella proposta dal cinéma des papas, ma al contempo terribilmente classica, soprattutto nella raffigurazione della relazione patriarcale con l’altro sesso. Indicativa, in questo senso, è una domanda rivolta dal borsaiolo Cartouche alla zingara Venus (Claudia Cardinale) in un divertente duetto nell’omonimo film di De Broca: “La cuisine, tu sais la faire?”.

La maschera dell’aitante spadaccino stride, però, se comparata a due ruoli precedenti e completamente trascurati nei “coccodrilli” pubblicati post-mortem. Mi riferisco, per aprire la porta del cinema d’autore, all’operaio dall’indole contemplativa inventato da Marguerite Duras e filmato da Peter Brook (Moderato cantabile, 1960) e al prete di Jean-Pierre Melville (Léon Morin, prete, 1961), forte della sua fede e resistente a ogni tentazione della carne. Brook, Melville, Bolognini (La viaccia, 1961) e più tardi Truffaut, infatti, non utilizzano quello che sarà il tratto peculiare della recitazione di Bébel, ovvero il «dispiegamento dinamico del corpo sullo schermo» (Vincendeau 2000). Preferiscono, al contrario, soffermarsi sul paesaggio di un volto quasi sempre disteso e rilassato, espressione di una maschilità che, in questo caso, appare priva di esuberanza e ricca di qualità “nascoste” come l’empatia, la sensibilità d’animo e una forte capacità di introspezione.

Vengono in mente, a questo proposito, le lunghe scene di conversazione tra l’operaio Chauvin e Anna (Jeanne Moreau) nel paesaggio desolato della Gironda (Moderato cantabile), con l’attore che non fa nulla se non camminare lentamente con le mani in tasca, e l’aria rassegnata con cui Louis, nelle neve fiabesca di La mia droga si chiama Julie, attende la morte dichiarando a Julie (Catherine Deneuve) un amore fatto di gioia e sofferenza.

Nessuno come Godard, però, ha saputo assemblare e al contempo scomporre i frammenti di quest’icona, lasciando il suo performer apparentemente libero di improvvisare per poi usarlo come semplice materiale da scolpire, doppiare (Charlotte et son Jules) o colorare (penso al finale di Il bandito delle ore undici). Impossibilitato a interpretare una parte, il Belmondo di Godard è infatti invitato a portare sullo schermo la sua verità e non quella del personaggio, in modo tale da mescolare la recitazione con la vita sino al punto che lo spettatore non vedrà più la differenza. E la vita, per Michel (Fino all’ultimo respiro) e Ferdinand (Il bandito delle ore undici), non è il cinema, ovvero una coreografia ipercinetica di salti, zuffe o corse in moto, ma semplicemente la vita.

Riferimenti bibliografici
J. Nacache, L’attore cinematografico, Negretto, Mantova 2012.
A. Scandola, Il corpo e lo sguardo. L’attore nel cinema della modernità, Marsilio, Venezia 2020.
G. Vincendeau, Les stars et le star-système en France, L’Harmattan, Paris 2000.

Jean-Paul Belmondo, Neuilly-sur-Seine 1933 – Parigi 2021

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