L’esperienza interiore è ormai proibita dalla società in generale
e dallo spettacolo in particolare.
Voi avete parlato di omicidio.
Quello che chiamano immagini diventa l’omicidio del presente.

 

Parlava così il vecchio professore di Adieu au Langage sfogliando il corposo libro di immagini firmato da Nicolas de Staël. E Jean-Luc Godard sembra ricominciare proprio da quel preciso movimento nel suo film successivo: “la condizione umana è pensare con le mani”, dice, perché l’uomo inizia a riconoscersi come tale quando giunge alla postura eretta, liberando gli arti superiori da mansioni puramente motorie e lasciandoli finalmente liberi di trasformare il mondo, sperimentare, scoprire la tecnica… montare elementi? Insomma cosa c’è di più contemporaneo del pensare in immagini attraverso le mani, in era di touch screen e tele-azione perenne? Ecco allora: Godard riparte dall’istintiva manualità del montaggio per arrivare solo successivamente all’ebbrezza del pensiero, inseguendo ancora una volta quell’originaria dialettica “tra la violenza dell’atto di rappresentazione e la calma insita nella rappresentazione stessa”.

Iniziamo a sfogliare Le Livre d’image, allora, dal primo capitolo: il “Remake” (della nostra memoria). Godard è sempre più consapevole della piena disponibilità delle immagini che il Novecento ci ha lasciato in eredità, quindi cerca apertamente una “morale dell’archivio” che gli consenta di appropriarsi di qualsiasi frammento del passato (perché “è il frammento a dire la verità”, dice Brecht), istituendo liberissimi raccordi tra le fonti. Il cinema è la nostra memoria condivisa, certo, quindi è dal cinema che bisogna ripartire. Invocando un’etica dell’immagine-in-movimento con i suoi indiscussi profeti – Rossellini, Straub, Renoir, Buñuel, Vigo, Ray, Tourneur, Ford, Hitchcock, ecc., tornano e ritornano significando nuovamente – in un film di puro montaggio che riporta Godard a quelle collisioni moltiplicate di parole-e-immagini sperimentate a partire dalle Histoire du cinéma.

Ecco perché Le livre d’image (chiaramente l’estensione di un discorso portato avanti negli ultimi trent’anni con rara coerenza) non può che aprirsi con la pellicola che scorre in moviola, rallenta, viene slabbrata dal fotogramma, ma tenta ancora di dire la verità 24 fotogrammi-al-secondo in una traccia visibile da riattivare. E allora le ansie nucleari che detonano sulla spiaggia di Un bacio e una pistola diventano nuovamente nostre; la guerra incombente che balena in quel singolo dettaglio de La regola del gioco ci turba ancora; le macerie morali di Germania anno zero o la fine della storia di Salò o le 120 giornate di Sodoma sono ancora lì, all’orizzonte, le riconosciamo… poco prima di ritrovare la pace nell’epifania improvvisa de L’atalante, immergendoci nuovamente in quell’acqua/schermo che moltiplica il nostro sguardo in un desiderio tutto potenziale. Insomma “dall’omicidio del presente a opera delle immagini” ci si può redimere solo attraverso le immagini: Godard continua a parlare, cita i libri sacri delle grandi religioni monoteiste per poi aprire il libro delle immagini in movimento che ha dato forma (e sta dando forma) alla nostra modernità.

Quali sono le figure ritornanti? Le mani, appunto, che dal primo pittogramma preistorico sino ai dettagli nei dipinti di Leonardo hanno pensato e fatto pensare. Ma poi il Novecento ha imposto la riproducibilità tecnica e quindi non può che essere la figura del treno a testimoniare questo scarto. Il treno nel cinema – da The General di Keaton a Berlin Express di Tourneur in una lunghissima e sublime sequenza d’infinite ritornanze – diventa la figura centrale che estende le mani dell’uomo sul secolo della (seconda) tecnica. Questi treni si muovono sulle rotaie della Storia, dalla Germania all’Est Europa, dall’Africa al West americano, confrontandosi con la civilizzazione e l’abominio, con la vita e la morte, per poi trovare nuove stazioni lì dove l’uomo ha deciso di rendere le costituzioni (laicamente) sacre. Ed ecco balenare il frammento di Alba di Gloria di John Ford: il giovane Lincoln si siede a leggere la Costituzione Americana con la purezza di sguardo di Henry Fonda, utopia pura, contrapposta alla divinità della Guerra che deflagra da Sarajevo al Vietnam. The horror, the horror. I piedi dello stesso Henry Fonda si agitano ora nella cella de Il Ladro di Hitchcock, meditando scelte etiche già inscritte nelle stesse inquadrature (i suoi epocali primi piani che facevano pensare il giovane critico Jean-Luc Godard).

La guerra al terrore del nuovo millennio, infine. La lunga riflessione sul mondo arabo – dalla purezza di riti e miti antichi, sino al complesso coacervo di tensioni presenti – si apre con la chiave rubata da Ingrid Bergman in Notorius. Il volto teso della Diva per eccellenza diventa la chiave per far emergere il trauma dell’immagine-virale-senza-sguardo che ci bombarda da ogni schermo: i video di propaganda del terrorismo internazionale (minacciosamente marchiati a fuoco) penetrano come lame l’immaginario del cinema con la potenza perturbante della bassa definizione. Immagini da interpretare e poi rimontare provocatoriamente, in un perenne Ici et ailleurs che esige ancora un pensiero in divenire per compensare quei lunghi fotogrammi in nero.

Insomma: Jean-Luc Godard orchestra l’ennesima sinfonia audio-visiva a cui non è minimamente necessario fornire interpretazioni vincolanti (tantomeno dopo una singola visione festivaliera che come un’ eco si fa sentire di sala in sala, di film in film). Bisogna semmai accompagnare queste immagini in un discorso quotidiano, creando personali raccordi tra le cose della vita. E fuori dalla sala, intatte, ecco le potenze contemporanee di uno sguardo sul mondo inalterato nel tempo: oltre ogni ragionamento sugli archivi e sul montaggio intermediale, oltre ogni riflessione sulla sopravvivenza delle immagini (della memoria) e ben oltre ogni romanticismo cinefilo “nouvelvaghiano”, se si sposta appena appena il punto di osservazione, ci si trova di fronte un uomo di 88 anni che maneggia le immagini come un qualsiasi ventenne nel XXI secolo. Godard monta e parla, tossisce e sbraita, costruendo personali atlanti/bacheche donate a qualsiasi ulteriore remix social(e), portando pienamente a compimento quella riflessione filosofica partita negli anni ’80 delle Histoires per diventare ora pura pratica (“pensare con le mani”) nel nuovo millennio dell’immaginazione interattiva. E un nuovo libro si apre.

«Oggi invece, la storia è quella che trasforma i documenti in monumenti, e che, laddove si decifravano delle tracce lasciate dagli uomini e si scopriva in negativo ciò che erano stati, presenta una massa di elementi che bisogna poi isolare, raggruppare, rendere pertinenti, mettere in relazione, costituire in insiemi». – Michel Foucault

Riferimenti bibliografici
M. Foucault, L’archeologia del sapere. Una metodologia per la storia della cultura, Rizzoli, Milano 1999. 
P. Montani, Tecnologie della sensibilità. Estetica e immaginazione interattiva, Raffaello Cortina Editore, Milano 2014.

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