Il titolo del saggio, Ebrei e cristiani nella Cappella Sistina, non rende appieno la portata del libro che recensisco. Nell’edizione francese questo è il sottotitolo; ma anche il titolo francese, La torpeur des Ancêtres (“Il torpore degli Antenati”) restituisce solo in parte la profondità teorica del lavoro di Giovanni Careri sulla Cappella Sistina. Il titolo italiano potrebbe far pensare a un saggio dal taglio tradizionale; il titolo francese a un saggio di iconologia. Il saggio è, naturalmente, entrambe le cose: va detto anzi che Careri svolge il ruolo di storico dell’arte e di iconologo con grande rigore. Ma i paradigmi metodologici qui messi in campo per leggere le immagini escono, per così dire, rimodulati dall’interpretazione degli affreschi della Cappella elaborata dall’autore.

Il cultore degli studi sull’arte, anche se non fosse un esperto di Michelangelo, uscirà dalla lettura di questo libro con una consapevolezza assai rinnovata degli strumenti di lavoro a disposizione dello storico dell’arte, a patto che quest’ultimo voglia aprirsi a una prospettiva non rigidamente storicista e documentarista. In sintesi, questo saggio è un caso esemplare di analisi storica di un’opera d’arte che non si tira indietro di fronte allo scoglio dell’interpretazione, al compito di azzardare un’ipotesi sul significato delle immagini, a pronunciarsi a proposito di cosa si possa ritrovare dentro di esse. E quindi, almeno dal mio punto di vista, è un libro che, pur non abbandonando il solido terreno della ricostruzione storica, arriva a toccare in maniera significativa questione di estetica e di teoria dell’arte. Ma andiamo con ordine. L’ipotesi interpretativa di Careri sulla Sistina è che le diverse linee (storica, iconologica, estetica) sopra solo accennate, rintracciabili negli affreschi di Michelangelo, trovano il loro punto di convergenza nella particolare antropologia cui l’opera dell’artista fa riferimento. Si tratta della concezione paolina dell’essere umano come creatura destinata alla salvezza (mediante un dono gratuito di Dio, attraverso la mediazione del Cristo) oppure alla dannazione. Di questa storia del genere umano che deve ancora compiersi definitivamente il Giudizio universale michelangiolesco non è una “mera” rappresentazione.

Si potrebbe dire che l’immagine è piuttosto un medium attivo, portatore di una “efficacia”, mediante la quale, togliendo i peccati dell’umanità e quindi rovesciando il senso della storia dell’umanità post-adamitica, il Cristo «ristabilisce la somiglianza perduta di tutti quelli che resusciteranno» (Careri 2020, p. 22). L’affresco della parete centrale della Cappella, proprio alle spalle dell’altare della messa, non mostra dunque solo l’evento di una storia ancora a venire: esso mostra proprio la «operazione» di «mutazione di forma» attraverso cui l’essere umano dovrà «trasfigurare» (metaschematisei) la propria figura al fine di renderla «conforme» (symmorphon) alla figura del Cristo (ibidem). Pertanto, al contrario di quanto vorrebbe una vulgata, che in maniera troppo affrettata iscrive Paolo di Tarso nel numero dei grandi iconoclasti delle grandi religioni monoteiste per via della sua condanna dell’idolatria all’inizio della Lettera ai Romani, la teologia paolina è invece proprio una delle fonti principali, più feconde e più potenti di una riabilitazione e definizione dell’uso delle immagini in ambito cristiano.

Sebbene il giudizio di Careri sull’arte rinascimentale, a partire dal caso della Sistina, diverga da quello di Hans Belting (ivi, p. 44), mi sembra che nel modo di trattare l’immagine del primo risuoni in qualche modo la concezione antropologica sostenuta dal secondo, per il quale le immagini non vanno viste necessariamente solo come copie della realtà, ma anche, e in taluni casi principalmente, come oggetti di pratiche. Ma, come storico e teorico o per meglio dire storico-teorico delle immagini, Careri pensa l’opera innanzi tutto come “oggetto teorico”, secondo la lezione di Hubert Damisch e Louis Marin: vale a dire «la costruzione teorica e la genealogia storica prodotta a partire da un’opera o da una serie di opere» (ivi, p. 265), ovvero, appunto come «luogo di operazioni teoriche che possono essere esplicitate» (ivi, p. 19). Mi sembra però che il metodo di lavoro di Careri sia molto più ricco nella strumentazione teorica, anche filosofica, oltreché nella flessibilità nell’applicare un paradigma a un oggetto: ne sia riprova il fatto che il suo maestro Louis Marin tende comunque a mantenersi nel recinto più sicuro della rappresentazione, di cui è stato uno dei massimi teorici nella seconda metà del XX secolo.

Per Careri la Sistina non è una rappresentazione; d’altronde potrebbe esserlo solo in modo aporetico. Potremmo dire che essa è piuttosto l’anticipazione quasi messianica di un tempo a venire: non a caso il filosofo cui ci si richiama è Walter Benjamin. In questo senso, si comprende appieno il disegno della Sistina solo se lo si concepisce come un montaggio capace di accordare insieme sia il tempo presente con il futuro della redenzione sia l’oggetto raffigurato con l’attrazione suscitata nel soggetto spettatore: «Attraverso quest’analisi, ho messo in opera un concetto di montaggio comparabile a quello messo a punto da Sergej Ejzenštejn, cioè un’operazione che non si limita a rilevare il progresso di una narrazione, ma fa apparire gli effetti retroattivi determinati dai cambiamenti dei paradigmi storici e delle loro forme visive sulle altre componenti dell’insieme» (ivi, p. 103).

Ma non basta. L’interpretazione della Sistina offerta da Careri ha, per così dire, un punto di condensazione. Il corpo muscoloso del Cristo della Sistina, ritorto nell’atto di sollevare la mano per dividere beati e dannati, ha evidentemente un modello classico, come ricorda l’autore: si tratta della figura di Apollo (ivi, p. 55). È però nella variazione del movimento, in quella che l’autore chiama «serpentina cristica» che cogliamo il senso profondo della ripresa del modello classico nell’affresco michelangiolesco, che non è dell’ordine del puro gusto per l’antico. Michelangelo deve rappresentare il movimento non solo di un corpo, ma dell’intera massa di corpi chiamati a risorgere e che sono appunto attratti dal movimento di trasfigurazione e conformazione che imprime in loro la forza sprigionata dal corpo del Cristo. La serpentina non è un elemento di puro disegno, ma esprime la potenza di un movimento, è quasi un vortice verrebbe da dire. Così come si riconosce qui appieno il senso della ripresa di Ejzenštejn: nella Cappella Sistina possiamo riconoscere un montaggio delle attrazioni che fa sì che l’elemento estetico presente in essa sia necessariamente legato all’espressione di un pathos e all’esibizione di un’idea. Mi sembra che lavori qui, sebbene su un oggetto della storia dell’arte del passato e non sul cinema, un processo dell’ordine di quella che Pietro Montani chiama “autenticazione”.

Perché allora “ebrei e cristiani”? Perché Careri individua nelle lunette che rappresentano i cosiddetti “antenati del Cristo” (re, profeti, patriarchi dell’Antico Testamento) un aspetto singolare. Questi personaggi, che compongono appunto una genealogia del Cristo «secondo la carne» e che testimoniano l’antica fede nella sua venuta, sono rappresentati con le pose e i gesti tipici dell’accidia, della malinconia. Gli umori e le passioni che esprimono sono di segno negativo. Inoltre Michelangelo non si fa problema a rappresentarli con gli abiti e i contrassegni di riconoscimenti imposti dal papa agli ebrei nella Roma del suo tempo. In altre parole, Michelangelo offre una rappresentazione antigiudaica degli antenati del Cristo. La ragione di una scelta così singolare – l’artista sta rappresentando in fondo non gli ebrei del suo tempo, “colpevoli” di non aver accolto la venuta del messia, ma gli ebrei vissuti nella fede della sua venuta – andrebbe ricercata nella decisione di rappresentare qualcosa come un resto, una resistenza che l’umanità oppone al processo di conformazione alla figura del Cristo, e quindi alla grazia redentrice del suo salvatore. Torniamo dunque alla matrice paolina degli affreschi michelangioleschi e all’inesauribile fecondità di immagini e figure teologiche che la Chiesa ha attinto – va detto: a volte con esiti tragici – dalle Epistole paoline.

Sorge a questo punto un interrogativo di natura squisitamente filosofica: come dobbiamo intendere l’immagine o il topos degli ebrei “resistenti” nella Sistina? Si tratta, per dirla con Blumenberg, di una «metafora assoluta» attraverso cui dare forma a un aspetto dell’esperienza umana? D’altronde lo stesso montaggio ejzenstejniano, cui Careri s’ispira per leggere gli affreschi della Sistina, è in larga misura pensato come una sorta di metafora in azione. Dunque in questione non sarebbero tanto gli ebrei “in carne e ossa” e loro presunte “colpe”, quanto la figura dell’ebreo all’interno del dispositivo teologico paolino, che ha marcato in modo indelebile la mentalità occidentale moderna, dentro e fuori l’ambito ecclesiastico. Sembrerebbe di sì, stando al bell’epilogo in cui Careri mostra come in fondo anche i protagonisti di Aspettando Godot (1953) di Beckett richiamino tale figura. È l’umanità, secondo questa metafora, a trovarsi in una condizione di attesa inerte, a tratti addirittura scettica e perfino “svogliata”, verso l’avvento di cambiamento che ha tanto sperato. È un quesito enorme, che apre domande e questioni sul rapporto tra il significato della nostra eredità storica e gli schemi di comprensione del presente e che mostra da sé la profonda rilevanza filosofica di questo libro.

Riferimenti bibliografici
H. Belting, Antropologia delle immagini, Carocci, Roma 2013.
H. Blumenberg, Naufragio con spettatore, il Mulino, Bologna 1985.
S.M. Ejzenstejn, Teoria generale del montaggio, Marsilio, Venezia 1985.
P. Montani, L’immaginazione intermediale, Laterza, Roma-Bari 2010.

Giovanni Careri, Ebrei e cristiani nella Cappella Sistina, Quodlibet, Macerata 2020.

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