A Sergej M. Ejzenštejn dobbiamo molto. Non solo alcuni dei film più belli della storia del cinema (che vanno ben oltre il noto Potëmkin). Dobbiamo forse soprattutto una potente riflessione a carattere filosofico-antropologico sulla pratica artistica, non solo cinematografica, sulla forma dell’opera e sul legame profondo tra questa e la vita, la dimensione biologica di tutto ciò che esiste.
La recente pubblicazione de Il metodo di S.M. Ejzenštejn costituisce dunque un evento editoriale. E per diverse ragioni. Non solo perché porta a compimento la pubblicazione delle Opere complete dell’autore sovietico (avviata all’inizio degli anni ottanta, con la curatela di Pietro Montani, da Marsilio), ma perché di queste Opere costituisce un tassello fondamentale, noto fino ad oggi solo in forma frammentaria ed episodica, e che ora trova la luce in edizione italiana con la curatela di una studiosa come Alessia Cervini, che ha dedicato ad Ejzenštejn anni di ricerca e diversi importanti studi monografici.
Dove ritroviamo l’attualità di Ejzenštejn? Perché ci permette di capire ancora molto dell’oggi, artistico e non?
Il metodo dell’arte è quello che da un lato ne attesta la sua storicità (ogni immagine porta inciso il suo indice storico), dall’altro mostra la soglia in cui questa storicità affonda in una dimensione “biologica” che definisce la faglia nella quale la forma perennemente si rinnova, rideterminando i caratteri del suo stesso indice storico. Il punto è fondamentale, e permette di sbarazzarsi di una serie di equivoci teorici che ci hanno accompagnato in questi anni nella costruzione di dicotomie limitanti dove l’immagine viene scissa tra “naturalizzazione” e “culturalizzazione”.
Ejzenštejn ci dice che la storicità dell’immagine è definita dal modo in cui è capace di riattualizzare un “biologico” che la trascende e che definisce i principi di costruzione formale. Così, per spiegare la centralità del ritmo come elemento della composizione artistica, il regista sovietico si riferisce ai movimenti ritmici automatici dell’organismo umano, come quello del battito cardiaco. E, citando il Kretschmer de La psicologia medica, fa riferimento al «movimento ritmico proprio della sfera degli apparati vegetativi» (p. 199) come forma arcaica che orienta la costruzione del ritmo della forma estetica, anche quella più complessa.
Ciò che ossessiona Ejzenštejn sono le forme del “pensiero sensibile” che abitano e orientano non solo le forme “evolute” della vita individuale e sociale, ma anche i principi costruttivi della forma estetica, che si modellano sui comportamenti umani: «Un principio compositivo è sempre il calco di un comportamento tipico dell’uomo» (p. 226). E questi comportamenti hanno il tratto dell’atavicità, del primordiale.
La presenza di un tratto “primordiale” riguarda tutte le strutture formali estetiche, quelle più complesse, come la costruzione di un intreccio (nella quale risuona la pratica ancestrale dell’intrecciare fibre) o quelle più semplici come le figure retoriche come la pars pro toto, dove il particolare e la sua efficacia sensibile prende il posto del generale. Tolstoj in Guerra e pace si serve del procedimento pienamente legittimo della pars pro toto, per esempio nella «descrizione della punta dello stivale di Alessandro I sul balcone di fronte al popolo» (p. 220). Con tale procedimento si ottiene «un’impressione di vitalità, perché si mette in moto il pensiero sensibile» (p. 220), il quale prende impulso dalla sensibilità del particolare per giungere alla generalizzazione concettuale. Questo riguarda naturalmente anche il cinema, ed Ejzenštejn qui fa riferimento all’immagine del pince-nez del dottore nel Potëmkin.
Che cosa caratterizza il pensiero sensoriale? La sua implicazione con gli oggetti e con le pratiche e un suo tratto processuale (qui il riferimento è Vygotskij). E il monologo interiore è un esempio decisivo di questa implicazione, nella quale si attuano le leggi che «sono esattamente le stesse che stanno alla base di tutta la varietà di leggi che governano la costruzione della forma e la composizione delle opere d’arte» (p. 133).
Qui emerge un punto fondamentale che va reso esplicito. Se il monologo interiore romanzesco attiva il pensiero sensoriale (e prelogico) implicato con gli oggetti e le pratiche (il nostro contesto pratico-operativo), e se questa implicazione concerne un tratto distintivo della natura umana, è anche vero che solo a date condizioni storiche restituirlo a parola e ad immagine diventa importante.
E queste condizioni sono quelle in cui acquista significato dare parola a ciò che prima non ne aveva, a quel circuito tra l’operativo e il verbale, il noetico e il sensibile, che diviene importante portare ad espressione solo con la modernità, di cui il romanzo è il primo contrassegno e il cinema quello più potente. Una modernità che accentuando sempre più i marcati processi di “democratizzazione” sociale li traspone anche su un piano estetico e formale, che passa per lo svincolarsi dalle codificazioni dei generi classici, dove azioni e parole venivano ad espressione, segnate dallo status originario dei personaggi (“migliori” o “peggiori” di noi, secondo l’idea della Poetica aristotelica); per approdare a forme di espressione il cui tratto “democratico” risiede nel fatto che a tutti (inclusi i piccolo-borghesi come il Leopold Bloom dell’Ulysses) è consentito sentire e provare una “cosa quale che sia” (sentimenti, pensieri) nel quotidiano più anonimo.
Questa “qualsiasità”, colta dal romanzo moderno, è costitutiva del cinema stesso (l’arte dell’“istante qualsiasi” dice Deleuze), e risponde dunque all’emergere di nuove istanze “egalitarie”. Detto in altri termini, ha senso porsi il problema dell’espressione di un “pensiero sensibile” se e solo se questo problema acquista una sua salienza, cioè quando una “riconfigurazione del sensibile” — per riprendere Rancière — ha avuto luogo. Dunque solo con la modernità “democratica”.
La straordinaria efficacia (per riprendere un termine su cui torna Ejzenštejn) del “metodo” ejzenštejniano risiede dunque nel suo carattere transtorico: l’emersione storica è l’attualizzazione differenziata di condizioni antropologiche e biologiche profonde che definiscono Homo sapiens. Senza un “doppio movimento”, verso l’alto (la coscienza) e verso il basso (il prelogico), verso la storia e la cultura da un lato e verso il primitivo e il biologico dall’altro, non solo l’opera d’arte sarebbe senza linfa, ma anche i processi più generali di sviluppo cognitivo e culturale (individuali e collettivi) resterebbero monchi.
Il “doppio movimento” verso il biologico, per poi tornare ad un livello alto di elaborazione cognitiva, caratterizza non solo la formatività estetica, ma anche quella sociale, culturale e politica. Con questa prospettiva, Ejzenštejn ci permette di leggere anche la stretta attualità. L’invadenza del biologico (virus) che sta segnando il nostro presente è “senza metodo” (questo è il riscontro della scienza) e il contagio distruttivo sembra inibire qualsiasi risposta “formativa” sia dal punto di vista sociale che estetico che politico.
Il tratto “regressivo” e il movimento verso l’atavico e il primitivo che stiamo attraversando (dal punto di vista individuale e sociale) devono essere accompagnati da un movimento verso l’“alto”, devono contemplare un secondo “movimento”, che non si limiti ad “esorcizzare” (con tentativi talvolta disperati di controllo) un primitivo distruttivo e caotico, ma che lo sappia ribaltare su un piano formativo, trasformando per esempio il contagio in un’associazione orizzontale e produttiva del “contiguo”. Questo ribaltamento può essere solo effetto dell’attuazione di un “metodo”, che ne garantisca anche l’efficacia.
Insomma, Il metodo ejzenštejniano — come opportunamente nota Cervini nell’Introduzione — è uno strumento per comprendere non solo il «funzionamento della singola opera d’arte» né quello di «una più generale storia delle arti», ma anche quello di una «storia naturale delle forme viventi» (p. XXVII).
Da questo punto vista, ma non solo, un autore come Ejzenštejn e un libro come Metodo costituiscono una delle vie di accesso più produttive per comprendere ed agire nel nostro presente, estetico e non.
Riferimenti bibliografici
S.M. Ejzenštejn, Il metodo, vol. 1, a cura di A. Cervini, Marsilio, Venezia 2020.
G. Deleuze, L’immagine-movimento. Cinema 1, Einaudi, Torino 2016.
J. Rancière, La partizione del sensibile. Estetica e politica, DeriveApprodi, Roma 2016.
S. M. Ejzenštejn, Il metodo, vol. 1, a cura di Alessia Cervini, Marsilio, Venezia 2020.