Lo sguardo di un condannato a morte. Sulla copertina di una recente edizione italiana di Delitto e castigo, campeggia la foto del giovane Lewis Payne, in attesa della sua condanna a morte nell’aprile 1865. È una delle foto che articolano la riflessione di Barthes ne La camera chiara (1980). «Lo sguardo di chi è morto e sta per morire» dice Barthes, lo sguardo dell’istante catastrofico nel quale la pressione del tempo, dell’accadere imprevedibile e irrimediabile si fa sentire. L’accadere, l’evento, irriducibile alla costruzione della scena da parte del punto di vista. Da questo sguardo muove, prende origine la biografia spirituale di Dostoevskij (Cfr. Kasatkina 2012): il plotone di esecuzione, nell’alba gelida del 22 dicembre 1849, sulla piazza Semenovskaja a San Pietroburgo. Soltanto a pochi minuti dalla fucilazione, sarà comunicata allo scrittore e agli altri condannati la conversione di quella pena in lavori forzati al confino. Questa la scena primaria che muove la narrazione dostoevskiana, ancor più delle fragili e discutibili letture psicopatologiche e/o mistiche delle crisi epilettiche di cui soffriva lo scrittore. Tale scena ci ricorda l’importanza, all’interno di un universo ribollente di chiacchiere, in cui si registrano tutti i possibili toni della conversazione umana, di quello che vediamo.
Quello che vediamo, a livello compositivo, è un’azione e una dinamica di rapporti tra i personaggi, ricalcata su alcuni grandi temi delle icone della tradizione ortodossa, da quella della Madre di Dio garante dei peccatori in Delitto e castigo alla Deposizione nel sepolcro ne L’idiota, dall’icona delle Mirofore nei Demoni alla Comunione degli apostoli nei Fratelli Karamazov (una trasposizione di tale scena primaria è ne L’idiota, cfr. Dostoevskij 1994, pp. 23-24). A loro volta però queste icone narrate hanno il loro acme nel gesto che rompe l’infinito chiacchierare, nell’azione o anche nella semplice mutazione di sguardo che fa collassare il tempo su se stesso. Come il condannato a morte di fronte quel plotone. Come Il corpo di Cristo morto nella tomba (1520–1522) di Hans Holbein il Giovane, il quadro per cui «si potrebbe perdere la fede» (L’idiota). È in quel punctum che all’improvviso apriamo gli occhi sull’istante apocalittico nel quale, secondo l’ottica dostoevskiana, siamo immersi dalla venuta di Cristo. È il contatto con le cose che le immagini riproducibili meccanicamente permettono. Forse è per questo che nel suo vagabondare tra le immagini-relitto del Novecento, Godard in Les Enfants jouent à la Russie (1993) si auto-presenta come il principe Myškin, come quell’idiota spaventato di fronte al Cristo morente, ma in grado di arrestare lo sguardo su quel corpo in dissoluzione.
Il cinema sovietico ha perlopiù rimosso tale sguardo (un’analisi articolata del rapporto del cinema sovietico, in particolare in epoca staliniana, con Dostoevskij, è in Dostoevskij and Soviets Films, cfr. Lary 1986). È uno sguardo che aveva bisogno del sonoro, dell’universo del parlato e della chiacchiera infinita per far emergere il silenzio dello sguardo del condannato a morte. Quando il sonoro è arrivato in Unione Sovietica, ben presto è stato sottomesso allo sguardo della ragione della Storia; a uno sguardo che, al di là della propaganda di regime, non poteva che (tolstojanamente, verrebbe da dire) annegare quell’istante nel fluire del cammino dell’umanità verso la liberazione.
Quello sguardo dostoevskiano riemerge nell’Ivan Groznyj (1943-46) di Ejzenštejn, in alcuni momenti di disperazione muta dell’Ascensione (1977) di Šhepitko. Soprattutto lo ritroviamo in Martyška, la figlia mutante dello Stalker nel film omonimo (Tarkovskij, 1979), capace di muovere gli oggetti sul tavolaccio della cucina «col cupo fuoco del desiderio» (Tjutčev). Del resto, Stalker è un viaggio all’interno di un cosmo di detriti e di carcasse di guerra, un cosmo dove la natura si riprende i suoi spazi e forse nasconde stanze dei desideri, rileggendo L’idiota e il suo personaggio principale, sempre il principe Myškin, sulla scorta di un romanzo di fantascienza dei fratelli Strugatskij (Cfr. Strugatzki 2002). Quello sguardo lo ritroviamo in Robert Bresson, in Paul Schrader (e nello Scorsese di Taxi driver), nei fratelli Dardenne, ispira alcune commedie morali di Allen, sembra alleggiare nelle periferie romane di Dogman (Garrone, 2018). Senza la pretesa di poter ricostruire l’impatto del romanziere sulla storia del cinema, tali momenti dostoevskiani dell’occhio del Novecento ci riportano alla questione iniziale: ha ancora qualcosa da dirci e da farci vedere Dostoevskij oggi? Lo sguardo del condannato a morte, in un’epoca che sembra aver del tutto cancellato il problema per lui decisivo, il rapporto tra Rivoluzione e Cristo, ha ancora spazio?
Mettiamo da parte facili e ingannevoli analogie tra la pandemia attuale e la scena dell’incubo di peste di Raskol’nikov, nell’epilogo di Delitto e castigo, ispirata da alcune immagini dell’Apocalisse (Ap. 9-17). La questione è semmai se il dispositivo teorico con il quale perlopiù affrontiamo il nostro tempo, ossia l’interrogazione delle pratiche immunitarie del bio-potere nel quadro di un’epoca della tecnica, intesa heideggerianamente come ultima fase, nichilistica, nella Storia dell’Essere, non si avviluppi nella tendenza a concepire il presente nei termini di una caduta, segnata dalla differenza tra Essere e ente, ridotto alla mera presenza (in epoca di pandemia, potremmo dire ridotto alla sua sopravvivenza fisica), assoggettata a uno stato di necessità: un orizzonte in cui tutto è già da sempre deciso, in cui le pratiche di potere non possono che tradursi in forme di dominio e di riduzione dell’umano a tassello del cristallo di palazzo.
Parlare di Rivoluzione e Cristo, con lo sguardo del condannato a morte, ci costringe invece a pensare l’epoca del nichilismo compiuto nei termini di uno spazio aperto, in cui convivono punti di vista irriducibili, in cui ogni singola voce ha il proprio irripetibile accento, la propria irripetibile storia, ed è così possibile costruire legami tra distinti. Uno spazio in cui tutto è ancora possibile. Se ci volgiamo a quello che è stato l’occhio del Novecento, significa continuare a credere nel cinema come irruzione insostenibile e irrimediabile del mondo nell’orizzonte del nostro sguardo. Come Michel dalle sbarre di una cella di fronte a Jeanne nella scena finale di Pickpocket (Bresson, 1959). Forse non è ancora il tempo di archiviare Dostoevskij.
Riferimenti bibliografici
F. Dostoevskij, L’idiota, Einaudi, Torino 1994.
T. Kasatkina, Dostoevskij. Il sacro nel profano, BUR, Rizzoli 2012.
N. Lary, Dostoevskij and Soviets Films. Visions of Demonic Realism, Cornell University Press, Ithaca and London 1986.
A. Strugatzki, B. Strugatzki, Picnic sul ciglio della strada, Marcos Y Marcos, Milano 2002.
Fëdor Dostoevskij, Mosca 1821 – San Pietroburgo 1881.