«Non sappiamo che farcene di questa spazzatura». Nonostante lo sprezzante giudizio di Lenin, il Novecento è stato il secolo di Dostoevskij. Il secolo delle ideocrazie e degli uomini dal sottosuolo. Il secolo dei palazzi di cristallo, alla cui lucentezza e perfezione guardano le religioni politiche che hanno fatto dei campi lo spazio della riduzione dell’umano al disumano, unendo in un sol movimento ideologia e terrore. Il secolo delle folle, in cui il singolo cerca riconoscimento, esaltando la propria eccezionalità, la propria unicità, che si rivela come la frustrazione di un ex-sognatore per una rivalità mimetica non soddisfatta, per il desiderio frustrato di essere come un altro al contempo odiato e venerato (sulla rivalità mimetica nell’uomo del sottosuolo, cfr. Girard 2005, Girard 2006). Gli anniversari servono a innalzare monumenti e a segnare l’attualità di un pensiero. Il riverbero di un’opera. Che ne è di Fëdor Michajlovič Dostoevskij, a 200 anni dalla sua nascita?
Nel novembre 1918, Lenin autorizza che sia innalzata a Mosca in via Dostoevskij una statua dello scultore Mercurov dedicata al romanziere e all’inaugurazione a tenere la prolusione è Vjačeslav Ivanov, che indica Dostoevskij come un profeta della rivoluzione, come una voce di rivolta contro i compromessi e la medietà del meščanstvo, della piccola borghesia. Ivanov era stato uno dei protagonisti tardi della filosofia religiosa russa d’inizio Novecento, che aveva eletto Dostoevskij a massimo filosofo russo, cercando nelle confessioni dei suoi eroi e nei dialoghi sui «problemi maledetti» l’orizzonte nel quale inscrivere dialettiche tra spirito e vita, tra libertà e necessità, tra rivoluzione e apocalisse: insomma, l’orizzonte nel quale rileggere l’epoca del nichilismo compiuto e cercare un contraccolpo in un cristianesimo lontano dallo spirito katechontico delle Chiese d’Oriente e Occidente. Riletto oggi, pur tra tante intuizioni affascinanti, rimane sempre l’impressione che nei tanti dibattiti che hanno affollato le riviste dell’intelligencija religiosa (Novij Put’, Voprosyžizni) e le riunioni delle Società filosofico-religiose di Mosca e San Pietroburgo, più che parlare di Dostoevskij, Ivanov, e prima di lui Šestov, Merežkovskij, Berdjaev, stiano proiettando sullo scrittore le proprie visioni teogoniche e apocalittiche.
Nel frattempo però la Rivoluzione era accaduta, e l’ansia apocalittica non aveva assunto il volto di un cristianesimo tragico, cercato in qualche sottosuolo o monastero russo o nelle conversazioni da ubriachi in bettole malfamate; quel cristianesimo era rimasto confinato in qualche cerchia ristretta, come nella torre, così veniva chiamata l’abitazione pietroburghese di Ivanov. Quegli interpreti andranno in esilio a Parigi, Berlino, Roma, orienteranno molte delle letture occidentali, dall’anticapitalismo romantico del giovane Lukács all’esistenzialismo libertario di Camus, dalla Konservative Revolution di Moeller van der Bruck all’ontologia della libertà di Pareyson. Nel far propria la diagnosi della Rivoluzione bolscevica come perversione dell’ansia apocalittica, gli interpreti religiosi ripeteranno l’analisi definitiva che del terrorismo rivoluzionario aveva fatto Dostoevskij ne I demoni (1871), ispirandosi al processo Nečaev e al Catechismo del rivoluzionario, probabilmente scritto insieme a Bakunin (sul complesso rapporto tra Bakunin e Nečaev, cfr. Confino 1976).
Secondo tale prospettiva, la Rivoluzione avrebbe pervertito l’ansia di una salvezza universale (mirovoe spasenie), ponendo alla base non il fondamento cristico ma il nichilismo degli Stavrogin, il nichilismo autodistruttivo dell’indifferenza, in grado di incarnare qualsiasi volto, dallo slavofilismo dei Šatov all’occidentalismo radicale degli atei religiosi come Kirillov al terrorismo rivoluzionario dei Verchovenskij, per così sfociare nel carnevale del Terrore. Sia detto per inciso, tali letture sembrano ignorare che Dostoevskij non è stato soltanto diagnosi, ma anche sintomo, con le simpatie per un nazionalismo di stampo slavofilo, in cui permangono comunque echi del suo socialismo giovanile, sia pur contrastato a livello metafisico, con il suo populismo e l’idealizzazione del mondo contadino, con l’uso sia pur circoscritto di stereotipi antisemiti, con la sua adesione negli ultimi anni a un regime autocratico. Del resto, proprio il convivere della lucidità delle analisi e della fragilità delle soluzioni intraviste lo rende sguardo esemplare del Novecento.
La Rivoluzione era accaduta, e le letture sovietiche sono state tante variazioni sul tema della dura invettiva di Gor’kij, che già nel 1913 si scagliava contro l’intenzione del Teatro d’Arte di Mosca di mettere in scena, con due spettacoli distinti, I Demoni, dopo aver rappresentato I fratelli Karamazov pochi anni prima. «Dostoevskij è il nostro cattivo genio», così tuonava Gor’kij, che vede nel romanziere le due malattie della storia malvagia russa: la crudeltà sadica del nichilista, dei Fēdor Karamazov, e il masochismo degli umiliati, degli “idioti”. Nel 1934, al I Congresso degli Scrittori Sovietici, il congresso in cui si afferma l’estetica di regime del realismo socialista, Gor’kij ripeterà accuse simili, parlando di Dostoevskij come di un Inquisitore del Medioevo, che esprime gli ideali di una cultura letteraria borghese la quale, piuttosto che raffigurare la propria cultura del lavoro con personaggi come l’industriale o il banchiere, preferisce figure come i ladri, le spie, fino al tipo dell’uomo inutile, che con le sue fantasticherie mistiche finisce per legittimare la violenza belluina, base del fascismo.
Questa totale delegittimazione di Dostoevskij tanto effetto avrà sugli studi sovietici, che perlopiù condanneranno l’ideologia reazionaria dello scrittore, salvo poi magari riabilitarla negli anni di guerra, in funzione di esaltazione anti-tedesca dello “spirito russo”. Ma la condanna di Gor’kij, tanto perentoria da apparire sospetta, andrebbe letta controluce, e vi si ritroverebbe l’eco dei suoi scritti di inizio ‘900, come La distruzione della personalità del 1906 (Cfr. Gor’kij 1920), con i quali si avvicinava alla tendenza dei costruttori di Dio, di quel marxismo russo che sulla scia dell’empiriominismo di Aleksandr Bogdanov cercava una religione prometeica, con la quale opporre alla ricerca di Dio delle Società filosofico-religiose la deificazione del «popolo immortale».
Da quelle idee, pur misconosciute e abiurate, nascono i fermenti del realismo socialista e l’idea dell’arte come ingegneria d’anime. Se quindi quel marxismo eretico e utopico, che aveva animato tanta avanguardia vicina al bolscevismo, sarà l’impianto teorico non detto che darà vita all’arte totalitaria degli anni staliniani, andrebbe a sua volta rintracciato l’origine nascosta di quella visione prometeica del popolo. E si troverebbe il nome di Fēdorov, il filosofo dell’opera comune, un oscuro bibliotecario amico di Dostoevskij, convinto che il compito del cristianesimo sia la patrificazione del cosmo, ossia la sconfitta della morte attraverso la resurrezione corporea degli individui, ora ridotti a materia dispersa nell’universo. Un oscuro bibliotecario che ispirerà Ciolkovskij, il padre della ricerca aereospaziale russa. Dostoevskij omaggerà l’oscuro bibliotecario nei Karamazov con una battuta di Alēša nel suo dialogo sulle questioni maledette con il fratello Ivan: «Bisogna resuscitare i tuoi morti, i quali forse non sono mai neppur morti» (Dostoevskij 1982, p. 309).
Queste idee saranno fermento anche di uno dei romanzi chiave sulla Rivoluzione, scritto nel 1927 ma rimasto inedito in Unione Sovietica fino agli anni ottanta, Čevengur di Platonov. Non a caso, una delle tante voci di quel villaggio di vinti della storia, di diseredati e umili contadini senza terra, alla ricerca di un’applicazione integrale del comunismo, sarà Dostoevskij: così si farà riregistrare all’anagrafe uno zoppo, il plenipotenziario Ignatij Mošonkov (traducibile in Ignazio Coglioni), in nome dell’autoperfezionamento individuale (Cfr. Platonov 2015, pp. 144-145). Questo intreccio e ramificazioni di idee vuol essere soltanto un veloce esempio del rapporto antinomico che lega Dostoevskij alla Rivoluzione, più complesso di quello descritto da chi ne fa un monumento per le sue capacità profetiche sulla natura ideocratica del terrore rivoluzionario o di chi lo rimuove, confinandolo a un passato oscuro di ideologo reazionario della nobiltà inurbata e del ceto medio impiegatizio, così da non mettere in discussione i cardini delle «magnifiche sorti e progressive» del regime bolscevico. I due piani, quello ontologico e quello politico-sociale, sono invece intrecciati. Il mondo di Dostoevskij è fatto di idee incarnate, che quindi presuppongono non soltanto una loro messa in scena, una loro “teatralizzazione”, ma anche la loro sperimentazione, la discesa nell’effettualità dell’esistenza, la messa alla prova. Da qui, il bisogno di narrarle, e non soltanto definirle teoreticamente. D’altro canto, le dinamiche sociali e i conflitti politici non sono riducibili a meri scontri d’interesse, ma sono mossi da pulsioni, desideri, visioni mistiche e ideologiche, da punti di vista metafisici irriducibili l’uno all’altro.
Chi ci ha dato la possibilità di intendere il legame antinomico (e non puramente oppositivo) che lega Cristo e la Rivoluzione in Dostoevskij, è stato Bachtin con il suo Dostoevskij. Poetica e stilistica (1968). Anche se ha evitato qualsiasi tema politico o religioso. Ce ne dà la possibilità, se leggiamo il sottotesto che Bachtin ha dovuto nel 1929 e poi nella riedizione del 1963 sottacere. Il rapporto dialogico tra autore ed eroe, per cui nel romanzo si creerebbe una comunità di voci non fuse tra di loro, una polifonia, è la trasposizione linguistica della relazione metafisica tra Dio e l’uomo. Dio si è umiliato, si è svuotato della sua autorità, per far essere la libertà della comunità di anime irriducibilmente distinte. Nessun relativismo dietro la polifonia bachtiniana, ma il paradigma di un cristianesimo kenotico, l’immagine di un Dio che si umilia fino a farsi nulla; immagine che, spinta al suo estremo, fa del tempo contemporaneo epoca apocalittica, in cui ogni istante è appeso alla possibilità del compimento messianico. Per questo, non vi è il flusso epico del romanzo tolstojano, ma l’istante, il presente nel quale convivono e convergono catastroficamente tutti i punti di vista, tutte le verità incarnate. Nulla ha già deciso della verità di Cristo o del nichilismo anticristico, anche se tale spazio metafisico è stato aperto dalla kenosi di Dio, perché tale verità si deciderà nel futuro.
Questa «comunione di anime non fuse tra di loro» non è un etereo dialogo platonico, ma sono voci che si accavallano, frasi smozzicate, citazioni nelle quali convive la ripresa parodica con lo svelamento di una qualche pretesa intuizione profonda, confessioni nelle quali si ripercuotono accenti e timbri altrui. Tutto può essere accostato, come in un giornale; ogni parola può trovare il proprio controcanto. Ancora di più, in ogni parola possono convivere intenzioni anche conflittuali, nelle quali costantemente emerge lo sforzo di acquisire una propria autonomia, un proprio accento, rifiutando il giudizio altrui e al contempo cercandone continuamente l’approvazione. Non soltanto non c’è un giudice terzo rispetto all’epochè apocalittica, ma in ogni voce risuonano molteplici interferenze, si mischiano chiacchiere, sermoni, invettive, orgoglio superomistico, apatia nichilistica, risentimenti, vertigini mistiche, tentativi seduttivi, umiliazioni, ossessioni psicopatologiche.
Questa ridda di voci, che nella prima edizione (1929) del Dostoevskij di Bachtin potevano alludere ancora ai dibattiti “metafisici” a cavallo del 1917, nella seconda edizione (1963), nella quale si introduce il tema del riso e del carnevale come orizzonte del romanzo polifonico – questi temi, vista la ritardata pubblicazione dei suoi studi su Rabelais, vengono inseriti in una riedizione di un suo vecchio studio su Dostoevskij, in un capitolo in gran parte scritto ex novo per l’occasione (cfr. Bactin 1968) –, sembrano oramai alludere alla ridda patologica, caotica, infernale, degli anni del Terrore staliniano. Sempre a proposito di monumenti, nel 1997, è stata edificata a Mosca un’altra statua di Dostoevskij, proprio davanti alla Biblioteca Lenin…
Riferimenti bibliografici
M. Bachtin, Dostoevskij. Poetica e stilistica, Einaudi, Torino 1968.
M. Confino, Il catechismo del rivoluzionario. Bakunin e il caso Nečaev, Adelphi, Milano 1976.
F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Einaudi, Torino 1982.
R. Girard, Dostoevskij dal doppio all’unità, Se, Milano 2005.
Id., La voce inascoltata della realtà, Adelphi, Milano 2006.
M. Gor’kij, La distruzione della personalità, Fratelli Bocca, Torino 1920.
A. Platonov, Čevengur, Einaudi, Torino 2015.
A. Scarlato, L’immagine di Cristo, le parole del romanzo. Dostoevskij e la filosofia russa, Mimesis, Udine-Milano 2006.
Fëdor Dostoevskij, Mosca 1821 – San Pietroburgo 1881.