Beau ha paura di tanto, di troppo, di tutto, a differenza del suo autore, pronto a pagare il prezzo che spesso si riserva alle opere che osano per troppa ambizione, a chi decide di mettersi in gioco. Al di là del perverso, ma divertente, tentativo di individuare e decodificare la moltitudine di simboli disseminati – che non trova sede in questo contesto – Beau ha paura (2023) si presenta come un’opera con diversi strati di significato che pone l’attenzione sull’esperienza della visione, sul rapporto tra spettatori, film e personaggio.

Se in The Truman Show (Weir, 1998) protagonista e pubblico del reality a un certo punto si scoprono, o ricordano, diegetici, andando così a ristabilire una distanza netta tra “pubblico del cinema” e “pubblico nel cinema”, tra noi e loro, Aster invece rilancia la crasi negli ultimi momenti portando ad un’unificazione della figura dello spettatore dentro e fuori lo schermo. Siamo chiamati ad essere testimoni delle vicende di Beau, a condividere gli spalti con quel pubblico che alla fine si rivela essere stato sempre lì ad osservare in silenzio, e sempre in silenzio si alza ai titoli di coda per uscire dallo stadio (“A noi piace abbattere i confini tra pubblico e attori”).

Nella funzione di testimone-pubblico, partecipiamo a un processo-farsa che non ha lo scopo di provare la colpevolezza dell’imputato quanto piuttosto di renderla manifesta. “Smetti di incriminarti” gli viene consigliato ad un certo punto, “C’è una telecamera”. Ma non sono le prove ad attestare le colpe, bensì l’inverso, in un processo che piega il significato di quanto accade in funzione di un’idea pregressa. Beau è colpevole nei confronti di sua madre, qualsiasi cosa faccia o dica. Il suo destino è segnato fin dall’inizio. «Guilty» è l’unico appunto scritto dallo psicanalista a pochi(ssimi) minuti dall’inizio.

Eppure, Beau è appena nato, lo abbiamo visto venire al mondo soltanto alcuni istanti prima e, con molta fatica, emettere il primo lamento. Che basti nascere per essere colpevoli? Il suo parto avviene in concomitanza con la prima scena: dal buio dello schermo, della sala, una luce si fa largo e prende forma. La vita – di Beau, personaggio, e di Beau ha paura, film – si avvia e la disperazione di una madre, che domanda perché il figlio non pianga, ricalca un’angoscia che non scomparirà più. Giunti al titolo, il film sembra costruirsi e proseguire con due identità, tanto complementari quanto – paradossalmente – contraddittorie.

Da una parte, Beau è il filmCon la collocazione e la scelta rappresentativa del parto, una stretta relazione viene subito suggerita tra opera e protagonista. La presenza perenne del marchio “MW Industries”, proprietà di Mona Wassermann – che, come un product placement monopolizza tutti gli oggetti dell’universo, perfino l’appartamento di Beau –, mette in luce come non solo il figlio ma anche ciò che lo ospita sia frutto materno, di quell’artefice, di quella creatrice di mondi e di vita che parrebbe avere il controllo su quanto mostrato. Come è possibile vedere in Copenhagen Cowboy (Refn, 2022) o Audition (Miike, 1999), il panorama mediale contemporaneo è sempre più affollato da personaggi che hanno la capacità di esercitare la propria forza manipolatoria sul mondo e sulle immagini che vivono, definendone regole e verosimiglianza.

La simbiosi Beau-opera si riflette nella forma con una camera spesso legata al suo corpo e sguardo: da panoramiche che ne emulano con fare artificioso il movimento, a soggettive che ne rimarcano il punto di vista. Influisce inoltre nel determinare le coordinate spazio-temporali. Il cambio scena tra un atto e l’altro, il passaggio di Beau tra i capitoli, ognuno caratterizzato da un luogo specifico, si può verificare soltanto dal momento in cui la sua connessione con lo spazio materiale viene interrotta: un incidente lo porta nella villa; addormentarsi lo porta nel villaggio del bosco; perdere i sensi lo porta alla strada; fino a giungere alla casa materna, o, più nello specifico, alla sua stanza da letto, unico posto in cui “non si risveglia lì per caso, ma giunge volontariamente”. Al tempo stesso, la coerenza temporale viene annullata in funzione di una connessione con Beau, il cui corpo e volto diventano l’effettivo raccordo cinematografico tra le ellissi, soprattutto notte-giorno.

Dall’altra, Beau è estraneo al filmIn quanto coinvolto in una sceneggiatura di cui non conosce il copione, è spaesato in un mondo – reale, mentale, cinematografico – che non comprende e di cui ha paura. Se il già citato Truman Burbank a un certo punto ha l’opportunità di capirsi diegetico, Beau sembra impossibilitato a raggiungere questa epifania, almeno fino allo sguardo – rassegnato o illuminato – finale verso la madre. Non ha neanche la fortuna di Caden Cotard, che ricerca e trova figure che possano dirgli cosa fare, che lo guidino all’interno di quella vita-sceneggiatura, forte del suo ruolo di regista. Beau, invece, non ha la capacità di controllare la narrazione né quella di ottenere il diritto di agire, che prova ad acquisire (fallendo) strangolando la madre.

Beau viene creato e abbandonato da Mona-Aster – sorta di presenza divina, onnipotente, che valica persino il concetto di morte – all’interno di un’opera e di simboli che non abita soltanto, ma che è costretto a subire in modo passivo (“Che cosa pensi che dovrei fare?”). Tutto è già determinato e costruito, preimpostato e prefabbricatoFin dalle prime scene una serie di indizi può anticipare come tutto si svolgerà, in una struttura circolare che collega inizio e fine: l’acquario dello psicologo di cui si prende cura e l’acquario in cui farà cadere Mona; il motoscafo con cui gioca il bambino che, strattonato dalla madre, fa rovesciare nella stessa maniera in cui avverrà nell’ultima inquadratura. L’acqua gioca infatti un ruolo centrale, concepita con funzione non dissimile da quella pensata da Bill Viola: acqua battesimale – sono diversi i riferimenti alla religione cattolica: dai murales al peccato originale – e liquido amniotico, simbolo di vita e di morte, soglia tra i mondi.

È così che Beau può controllare le riprese della videocamera sul “Canale 78”, osservando le registrazioni non soltanto di ciò che concerne il passato ma addirittura il futuro: è tutto già stato scritto, filmato, montato. La natura preesistente del film pone a Beau gli strumenti per potersi muovere all’interno della sua struttura – anche metacinematografica, sempre che in questo caso esista tale distinzione –; egli è impossibilitato però a farlo a causa della sua incapacità, del suo ignorare d’essere un personaggio all’interno di una storia, di essere fulcro di qualcosa creato e architettato.

Come accennato prima, le due identità coesistono in modo complementare e talvolta contraddittorio nel definire realtà, ricordo, racconto: tre dimensioni che si posizionano tutte sul medesimo piano gerarchico, contribuendo a comporre l’insieme. I ricordi di infanzia sono sia frutto del Beau-film (la struttura coincide con la sua mente) che del Mona-demiurgo (sono parte di quella finzione da lei costruita). Nella vicenda animata le modalità rappresentative vengono stravolte e i confini si perdono definitivamente, diventando impossibile tracciare linee di separazioneUna vita mai vissuta, o vissuta proprio grazie al cinema? E anche fosse un sogno ad occhi aperti, Beau non sembra averne il controllo, la coscienza della sua produzione, subendo per l’ennesima volta.

Da questo punto di vista, il tanto chiamato in causa complesso edipico darebbe al protagonista un inconscio personale che, trovando spazio nella prima identità, giustificherebbe l’impulso “Beau verso madre”. L’intromissione della seconda identità porta però ad un ribaltamento in “madre verso Beau”, al complesso di Giocasta di una figura che sfrutta la propria esperienza e i propri desideri per costruire i ricordi che il figlio ritiene propri: è lei ad innestare il ricordo da cui emerge la relazione sesso-morte, timore-trauma che ne preserva la verginità. E se tutto è ordito da Mona, allora quello che Beau figlio-personaggio crede di pensare, di ricordare, diventa riflesso del suo desiderio. Dualismo che spiega in modi differenti la somiglianza tra Elaine e Mona da giovane, la moglie animata dai capelli rossi e quel “a volte ti sembrerà un uomo” in relazione al volto nitido della nonna materna.

Beau grida che tutto ciò che vuole è la verità, ma la verità tanto ricercata appare come l’elemento meno reale dell’intero mondo orchestrato, materializzazione fenomenica e concreta del simbolo. Affianco ad esso è presente un altro personaggio a prima vista marginale, che permette di mettere in luce quello che è l’approccio al simbolismo. Tutti i personaggi – o sarebbe più opportuno parlare di tipi – sono inseriti all’interno di uno schema più ampio, che ha come risultato il grande volto di Mona, e ognuno vive della propria natura simbolica, piuttosto che metaforica. Da questo deriva la mancanza di un approfondimento psicologico, talvolta scambiata per superficialità.

Il gemello che appare nei frammenti onirici e che verrà poi ritrovato in soffitta – c’è sempre un sopra: l’uomo sopra la vasca, l’appartamento sopra il sexy shop, Beau sopra la tomba – diventa allora esclusivamente funzionale al ruolo-simbolo che ricopre. Serve che compaia soltanto nella misura di elemento che permette di unire e (con)fondere realtà e ricordo. E così Elaine, dal momento in cui assolve alla propria funzione, muore, o meglio si spegne, come una marionetta o un oggetto che ha concluso il proprio compito. Ora può uscire di scena, pietrificata e trasportata, come un oggetto.

La dipartita di Beau avviene invece con un gesto, senza ornamenti. L’opera è giunta al termine e lui con essa. Ciò che ha sempre temuto – la morte, la fine del film, ma anche la (ri)nascita, l’esistenza del film – è inevitabilmente arrivata, e in un ultimo sguardo alla madre sembra quasi comprenderlo. Il motoscafo si ribalta con la semplicità che avviene giocando con una barchetta in uno stagnetto. Il pubblico si alza – qualcuno pensieroso, qualcun’altro confuso – e si avvia verso l’uscita, verso casa.

Nel mentre prende forma la consapevolezza di non aver davvero assistito al “viaggio di un eroe”, bensì ad un’opera che – in quanto tale e di più – ci ha dato solo l’illusione di un’evoluzione, di una scelta influente (“Sei sicuro? È una tua scelta”), all’interno di una struttura esistente e predeterminata fin da prima che ci sedessimo in sala, fin da prima che il protagonista iniziasse ad avere paura. E intanto Beau rimane lì, imprigionato in un film di cui non vuole fare parte, in un ciclo nascita-morte infinito da cui, per quanto possa correre, non potrà fuggirvi mai.

Beau ha paura. Regia: Ari Aster; sceneggiatura: Ari Aster; fotografia: Pawel Pogorzelski; montaggio: Lucian Johnston; musiche: The Haxan Cloak; interpreti: Joaquin Phoenix, Patti LuPone, Amy Ryan, Parker Posey, Nathan Lane, Armen Nahapetian, Stephen McKinley Henderson, Richard Kind, Kylie Rogers, Denis Ménochet, Zoe Lister-Jones, Julia Antonelli, Hayley Squires, Julian Richings, Bill Hader; produzione: A24, Access Industries, IPR.VC, Square Peg, Stage 6 Films; distribuzione: I Wonder Pictures; origine: Stati Uniti d’America, Canada, Finlandia; durata: 179’; anno: 2023.

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