A cavallo tra fine Novecento e inizio Terzo Millennio, Takashi Miike sconvolse il pubblico di tutto il mondo in modo radicale, consacrando a livello internazionale il suo nome nel novero dei punti di riferimento di un certo tipo di cinema considerato tipicamente estremo. Con una carriera iniziata alle soglie degli anni novanta, in pochissimo tempo il regista giapponese contava già più di trenta lavori – distribuiti tra sala e V-Cinema, e per la maggior parte circolati soltanto all’interno del mercato giapponese – mostrando fin da subito grande interesse nel lavorare sulla commistione di generi diversi (dall’horror alla fantascienza, dall’azione alla commedia) legati da vicende incentrate sul mondo criminale della yakuza.
Parallelamente, iniziato con Cure nel 1997 e portato alla ribalta globale con Ring l’anno seguente, il fenomeno del nuovo J-Horror si avvia a percorrere il proprio periodo di maturazione e massima proliferazione: ponendosi in posizione di distacco nei confronti dei prototipi del passato, Kyoshi Kurosawa e in particolare Hideo Nakata aprono la strada alla riscrittura di un immaginario che negli anni costruirà un’iconografia ormai sedimentata nella conoscenza comune. In questo contesto nazionale e di genere, Audition (1999) viene proposto al pubblico occidentale con un atteggiamento di controtendenza: niente mesmerismo o presenze paranormali, l’orrore volge verso un’altra direzione, più inaspettata, verso la quotidianità, la semplicità degli elementi e l’attesa.
L’approccio anarchico che sembra caratterizzare il cinema di Miike – piuttosto che assalire lo spettatore attraverso sadismo estremo (Ichi the Killer, 2001), incesto e necrofilia (Visitor Q, 2001) o donne che partoriscono adulti (Gozu, 2003) – trova come luogo di residenza per il perturbante l’imprevedibilità della realtà quotidiana, rifiutando la sua ipotetica condizione rassicurante e restituendo un’atmosfera funerea di costante memento mori, che si incarna nella figura di Asami Yamazaki (“Rinunciare alla danza è stato come dover accettare la morte. Vivere è solo un altro modo di arrivare alla morte”).
Presentata inizialmente in modo familiare, bella ed educata, quasi eterea, con la progressione del racconto quell’immagine sarà funzionale ad alimentare il suo contrasto con quello stesso mondo, ponendola in una posizione di radicale destabilizzazione. Asami racchiude in sé il terrore che si cela dietro l’apparenza dell’ordinario, ciò che scivola dalla normale comprensione: l’asincronia tra apparenza e realtà permette di far leva su un tipo di orrore che valica la fantasia, attingendo a questioni naturali o ataviche nel rapporto con le (in)certezze che regolano la vita sociale.
La costruzione di tale processo avviene con pazienza, un tassello alla volta, senza fretta di creare effetti immediati: passano trenta minuti prima che Asami compaia, altri venti prima che si manifestino i primi i segnali di anomalia, veicolati attraverso la fisicità, per poi esplodere soltanto nelle sequenze finali. Il lavoro svolto sulla raffigurazione del corpo di Asami mette in luce un’attenzione particolare nei confronti della carne e della corporalità: Miike sembra riscoprire l’orrore tattile, il feticismo per cicatrici e mutilazioni, per il rumore di ossa e viscere, senza ricadere in sottogeneri pure shock value come il torture porn o il gore. Una statica posizione deformata in attesa che il telefono squilli, o una presenza non mostrata che si contorce dentro a un sacco lercio, sono sufficienti a donare all’inquadratura una carica semantica perturbante, sfruttando così la capacità del mezzo cinematografico di raccontare per immagini.
Insieme a Cure di Kurosawa, Audition assume un ruolo di rilievo negli anni successivi, proprio come esempio di un cinema ormai consapevole delle immagini che crea e, di conseguenza, della loro natura manipolabile, avvicinandosi ad un modello narrativo che Brian McHale chiamerebbe «a dominante ontologica». Lo stesso spettatore viene chiamato in causa a ragionare sulla natura di ciò che vede e sulla propria pratica di visione: un voyeurismo strozzato, con una polarizzazione che avvicina tramite le immagini per poi subito allontanare tramite il loro lascito, in un continuo gioco di attrazione e repulsione (“Volevo fare un film che gli spettatori si sarebbero pentiti di aver visto”).
Nella seconda metà del film, infatti, spettatore e Aoyama si troveranno a condividere una progressiva perdita delle coordinate spazio-temporali, in uno spaesamento che spinge inevitabilmente entrambi a interrogarsi sulla natura di quel mondo – osservato da uno, abitato dall’altro – le cui regole soccombono alle mani, o meglio all’influenza, di Asami. Arrivato ad oggi, Audition si mostra quindi come una mappa che condensa un insieme di riflessioni, temi e approcci che riguardano tanto il valore semantico e ontologico dell’immagine – che, soprattutto in seguito alla diffusione delle tecnologie digitali, proprio in quegli anni iniziano ad innervare le discussioni teoriche attorno al mezzo – quanto la rappresentazione di un certo tipo di corporalità sempre più diffusa nello scenario contemporaneo, ora perturbante ora fonte di carnalità.
Da questo punto di vista, la distribuzione nelle sale del suo restauro 4K da parte della Wanted Cinema appare come un fenomeno dal doppio valore: se da un lato, per l’appunto, viene tracciata una grande lucidità nella selezione del cosa recuperare dal passato; dall’altro, la stessa si può rintracciare anche nella scelta del come riproporlo nel presente. L’operazione va ad inserirsi nel solco di un recente cambio di rotta nell’approccio italiano nei confronti delle pellicole restaurate e, più in generale, del cinema del passato. In un panorama in cui la diffusione dei restauri e delle retrospettive passano quasi esclusivamente attraverso i piccoli circuiti delle cineteche e dei festival, la distribuzione su scala nazionale compiuta dalla Wanted permette il passaggio dell’opera anche attraverso i canali delle catene di multisala, frequentati da un target più occasionale e mainstream, come l’United Cinemas International. Scelta indubbiamente curiosa se relazionata al film di Miike, che non rappresenta un oggetto che impera nella cultura o nell’immaginario collettivo, come accaduto con i recenti passaggi in sala dei film più celebri di Kubrick, ma che si muove più sottotraccia.
Partendo dalla posizione di Henri Langlois sulle politiche di conservazione e sulla diffusione della cultura – che fa delle cineteche (delle sale in generale, in questo caso) un museo dell’avvenire – tale approccio distributivo e selettivo sottolinea non soltanto la necessità del restauro ai fini conservativi, ma anche il valore, si potrebbe dire ideologico o romantico, della diffusione della conoscenza e della cultura cinematografica al di fuori dei ristretti ambienti cinefili. L’eco consegnato al film permette così di riscoprire, in qualche modo, una funzione popolare atipicamente didattica del cinema nei confronti del suo stesso passato e un atteggiamento che supera la semplice reiterazione della visione. Un’esperienza, quella della sala, che oggi più che mai assume le forme di un luogo in cui sembrano convergere passato, presente e futuro.
Audition. Regia: Takashi Miike; sceneggiatura: Daisuke Tengan; fotografia: Hideo Yamamoto; montaggio: Yasushi Shimamura; interpreti: Ryō Ishibashi, Eihi Shiina, Tetsu Sawaki, Jun Kunimura, Miyuki Matsuda, Renji Ishibashi, Ren Ōsugi; produzione: Lionsgate; distribuzione: Mikado Film, CG Entertainment; origine: Giappone, Corea del sud; durata: 115’; anno: 1999.