Con la Mostra di Palazzo Reale a Milano, Bill Viola sembra tornare al luogo d’origine, alla genesi, a quell’Italia che – a partire dalla discendenza paterna – ha assorbito e plasmato l’uomo-artista. Perché è proprio durante il soggiorno in Italia a metà anni settanta, periodo in cui lavora alla galleria art/tapes/22 di Firenze, che rimane affascinato dall’arte antica. Se prima considerava i musei «ospedali tirati a lucido» (Viola in Galansino 2018, p. 21), il panorama fiorentino-senese gli mostrerà un’arte libera e non relegata all’interno dell’ambiente museale. Non sono «opere morte che interessano solo ai vecchi studiosi» (ibidem), ma vivono e fanno parte integrante della comunità, dei luoghi che essa utilizza e sfrutta quotidianamente.

L’arte medioevale e rinascimentale italiana diventa allora un punto di riferimento. Il suo interesse non si limita però alla forma, alla componente visiva, quanto piuttosto a ciò che si nasconde all’interno delle opere, alla dimensione spirituale. Ed è proprio questo che lo porta, insieme alla moglie Kira Perov, a compiere diversi viaggi in giro per il mondo, tra Death Valley, deserto del Sahara, Europa e soprattutto Giappone – in cui diventa primo artist in residence occidentale presso Sony – che affineranno il suo bagaglio spirituale e culturale.

Cardine è il ruolo ricoperto dal buddhismo, che è possibile rintracciare nei mudra che fanno da protagonisti nel polittico a quattro schermi Four Hands (2001), in cui quattro coppie di mani mostrano le diverse età dell’uomo: fanciullezza, adolescenza, adultità e vecchiaia. Oppure nell’insistenza sul numero cinque, che nella simbologia buddista rimanda agli skandha, gli elementi costituivi dell’esistenza: forma, percezione, sensazione, composizione e coscienza. Da Stations (1994) a Going Forth By Day (2002), passando per il saggio macro-tematico I Don’t Know What It Is I Am Like (1986), sono molte le opere ripartite in cinque parti.

The Quintet of the Silent (2000) fa parte di una serie di cinque video che ritraggono un gruppo di altrettante persone intente a trasmettere diverse emozioni (sofferenza, dolore, rabbia, paura e gioia), ora personali ora universali. E sempre cinque sono i pannelli che scandiscono la routine (mattina, pomeriggio, tramonto, sera e notte) dalla vita alla morte – dall’acqua della brocca al fuoco delle candele nella stanza, dall’alba al tramonto nel ciclo naturale fuori dalla finestra – nella predella Catherine’s Room (2001), ispirata alla Vita di santa Caterina da Siena di Andrea di Bartolo.

Entrambi i video sono posti nella prima sala, dichiarando subito come il videoartista recuperi o persegua il genere del tableau vivant (Gualdoni 2017), sfruttato per riflettere sulla dimensione iconografica ed emotiva dell’arte antica, in rapporto ai moderni strumenti tecnologici che gli permettono di creare un “nuovo corpo” – o meglio, una nuova idea di corpo – elettronico, digitale. L’obiettivo non è quello di valorizzare la corporalità in sé, quanto piuttosto di utilizzarla come elemento compositivo, veicolo per far emergere il profondo, spesso tramite l’uso estremizzato del ralenti che sembra rimandare le figure ad un piano bidimensionale.

Se per Viola l’immagine in movimento è la principale rivoluzione artistica del Novecento, è proprio grazie all’utilizzo massiccio del ralenti che riesce a trovare una crasi tra le diverse dimensioni spirituali e materiali. Recupera una tradizione del passato «che non è semplicisticamente citata ma artisticamente assimilata» (Piraina in Catricalà, Perov 2023, p. 11), collocata nel solco di quella stessa tradizione che viene trasportata nel contemporaneo, perché «il passato non passa, si trasforma, non è cenere morta ma fuoco vivo che permette il rinnovamento» (ibidem). Il ralenti diventa così uno strumento transitorio, o combinatorio, tra la staticità di ciò che è stata e il movimento di ciò che è l’arte visiva, consentendo allo spettatore di avere un approccio emozionale all’opera video e attento ai minimi dettagli – in senso quasi morelliano.

Il pubblico svolge infatti un ruolo essenziale, andando a fondersi con il luogo in cui l’opera è collocata, perché «il video stimola strati emotivi e sensoriali, collocando lo spettatore in quella linea sottile tra spazio interno ed esterno» (ivi, p. 43). Come i fiamminghi che inventarono una nuova tecnica di rappresentazione – la pittura a olio – nel saggio Nero videoLa mortalità dell’immagine Viola sostiene che l’equivalente contemporaneo di quel sofisticato sistema di creazione di immagini sia proprio il video digitale ad alta definizione, mentre l’importanza che viene data al tempo ha il medesimo peso dell’introduzione dello spazio tridimensionale in pittura. Video e manipolazione del tempo permettono di imprimere le immagini in movimento nella mente di chi guarda e di indagare i particolari che costruiscono il mondo materiale da cui emerge lo spirito, avvicinando la pittura alla dimensione scultorea e il video a una nuova forma di “pittura elettronica”.

Gli aspetti del “pittore elettronico”, come lo definisce Maria Gloria Bicocchi, è possibile ravvisarli in particolar modo in The Greeting (1995) – che apre il cosiddetto “secondo periodo” – e in Emergence (2002), dove il ralenti viene combinato con il recupero di precise iconografie del passato, rispettivamente la Visitazione di Pontormo e la Pietà di Masolino da Panicale. Il primo è un video di quarantacinque secondi trasformati in dieci minuti, in cui l’estrema dilatazione permette di indagare sulla coscienza dello spettatore e la scenografia sembra rifiutare le leggi prospettiche. Il secondo introduce invece l’avvicinamento ai temi religiosi cristiani e a quelli spirituali orientali, con la struttura circolare che richiama l’idea di inizio e fine della vita. Il pallore della pelle dell’uomo ne indica la morte mentre gli occhi socchiusi la vita, rimarcata dall’acqua battesimale o liquido amniotico.

Il tema dell’acqua risulta una costante nel lavoro del videoartista fin da The Reflecting Pool (1979), elemento che rappresenta «nascita e rinascita per la cultura occidentale e purificazione nella cultura giapponese» (ivi, pp. 49-51). Interesse che parrebbe avere origine da un evento biografico, quando rischiò di annegare dopo essersi tuffato in un lago, salvato in tempo dallo zio. Viola ricorda l’accaduto con grande intensità, senza terrore, come uno dei momenti più belli della sua infanzia. L’acqua diventa perciò simbolo di vita, purificazione, e al contempo di morte, distruzione. È una forza inarrestabile e superiore all’uomo in The Raft (2004), al punto da trovarsi costretto a sottostare al suo volere, così come è violenta in uno dei quattro video della serie Martyrs (2014) – oltre a fuoco, aria e terra – con un martirio che si allontana dalla concezione cristiana, per assolvere ad un ruolo più generale di testimone della condizione umana, della sofferenza altrui. Come già visto in Catherine’s Room, essa spesso si contrappone all’elemento del fuoco secondo una polarizzazione cristiana paradiso e inferno. Stesso accade nella bipartizione dicotomica delle due opere del 2005 che occupano in successione l’ultima stanza della mostra, entrambe parte del progetto Tristan und Isolde messo in scena con la regia di Peter Sellars a Los Angeles e poi all’’Opéra Bastille di Parigi.

Se Tristan’s Ascension (The Sound of a Mountain Under a Waterfall) ha come unico protagonista l’acqua, ancora una volta simbolo di vita – eterna, in questo caso – che ascende alla dimensione ultraterrena, divina; Fire Woman vede invece un’immediata predominanza del fuoco. La scura sagoma di una donna, forse Crimilde, si staglia davanti ad un imponente incendio mentre ai suoi piedi si allunga un pavimento acquoso. Il riflesso del fuoco sulla sua superficie porta alla creazione di un liquido che conserva in sé le proprietà dei due elementi, nascita e morte, salvezza e distruzione, da cui la donna non riemergerà, purificata e dissolta.

Poco dopo questo nuovo liquido – che sembra rimandare al flusso del video, del digitale – conquisterà lo schermo per lasciare infine spazio all’oscurità, al nero della pupilla che «rappresenta il territorio dell’inesistente, il luogo prima e dopo l’immagine, il fondamento del “vuoto” menzionato in ogni sistema di educazione spirituale» (Viola 2016, pp. 36-37). Nero da cui appaiono anche i due anziani nel dittico Man Searching for Immortality/Woman Searching for Eternity (2013), che si ispira all’Adamo ed Eva di Dürer (Museo del Prado) o di Cranach (Uffizi), dove in entrambi i corpi emergono dall’oscurità, dallo sfondo nero primordiale. L’acqua-video diventa così un elemento di convergenza, collocandosi a metà tra natura e tecnologia concepite come entità tutt’altro che antinomiche: «La tecnologia non è forse parte integrante della natura, condividendo con essa un’identica origine, il cosmo, quel plasma interattivo che è in sé un sistema autosufficiente, in cui ogni elemento è connesso con l’altro in un tutto inscindibile?» (Arecco, 2016).

Proprio dalla sua intrinseca natura di confine emerge un altro grande tema, che potremmo definire “della soglia”. In Ocean Without a Shore (2007) – trittico video in cui combina, estende, diversi elementi formali e concettuali di The Passing (1991) e The Crossing (1996) – la soglia, il portale, che separata il mondo dei vivi da quello dei morti è rappresentato per l’appunto da un muro d’acqua, che una volta superato conferisce colore alle grigie figure emergenti dall’oscurità. Essa è ciò che permette il passaggio – che può dare e togliere la vita –, è però grazie allo schermo, al dato tecnologico, che le anime possono affacciarsi e guardare il piano terreno: la vicinanza allo schermo rappresenta il punto più vicino all’esistenza, mentre la lontananza il più distante.

L’acqua e il video definiscono allora «il passaggio da uno stato all’altro, da una dimensione a un’altra, dalla vita alla morte, dalla veglia al sonno, dal buio alla luce è dunque il transito obbligatorio che ogni essere umano deve compiere per acquisire una maggiore consapevolezza di sé e dello spazio che lo circonda» (Amaducci 2014, p. 102). Non soltanto i video presentano una soglia, anche le opere in sé – che a partire dagli anni novanta contengono diversi aspetti e apparati cinematografici – si collocano in un confine tra video-arte e cinema sperimentale, tanto da potersi definire «cinema sperimentale elettronico» (ibidem). Ciò che interessa Viola sono le modalità attraverso cui il mezzo trasfigura le immagini che derivano dalla realtà, come tecniche e strutture permettano di trascendere un’inedita consapevolezza interiore, non preoccupandosi delle etichette semantiche.

Alla luce di quanto visto, assume quindi maggiore contesto l’installazione The Veiling (1995) in cui due proiettori contrapposti proiettano immagini su nove veli sospesi in sequenza. Da una parte un uomo e dall’altra una donna si cercano tra luci e ombre all’interno di un ambiente perlopiù bucolico, impossibilitati a trovarsi. Più le immagini si avvicinano ai veli centrali, più si sovrappongono e (con)fondono. L’orchestrazione materiale dell’artista appare come l’unico sistema che consente agli elementi naturali incomunicabili di unirsi, dando possibilità ai due corpi di vivere nel medesimo fotogramma. In tal modo, il videoartista raggiunge «quegli stati interiori dell’uomo attraverso la tecnologia, ricollegando la parte emotiva e sensibile con quella materiale. Come se la tecnologia attraverso il lavoro dell’artista potesse trovare una nuova relazione con noi e i nostri corpi» (Catricalà, Perov 2023, p. 41).

Riferimenti bibliografici
A. Amaducci, Videoarte. Storia, autori, linguaggi, Kaplan, Torino 2014.
A. Galansino, Bill Viola, Giunti, Firenze 2018.
B. Viola, Nero video. La mortalità dell’immagine, Castelvecchi, Roma 2016.
F. Gualdoni, Corpo delle immagini, immagini del corpo. Tableaux vivants da San Francesco a Bill Viola, Johan & Levi, Monza 2017.
S. Arecco, Il cinema breve. Da Walt Disney a David Bowie, Cineteca di Bologna, Bologna 2016.
V. Catricalà, K. Perov, Bill Viola, Skira, Milano 2023.

Bill Viola, a cura di K. Perov, Palazzo Reale, Milano, 24 febbraio 2023 − 25 giugno 2023.

* Bill Viola, The Raft (2004). Foto di Kira Perov © Bill Viola Studio

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