È certamente inutile presentare Jean-Louis Comolli: il suo lavoro di critico, di scrittore, di cineasta ci rinvia, con il suo nome, oltre il suo nome, ad una certa idea di Francia, alle anguste (auguste) sale di cinema del Quartiere latino, alle discussioni con registi e scrittori in spazi poco comodi, che si prolunga(va)no sui marciapiedi o in qualche brasserie. Un mondo finito. Ultimo ciak. Comolli, durante i vari lockdown che hanno marcato le nostre esistenze negli ultimi mesi, ha scritto un volumetto da poco disponibile in libreria Une certaine tendance du cinéma documentaire, per i tipi di Verdier.

Il suo nome, la sua storia, i suoi scritti ci avevano avvertiti anche prima di annusare la carta stampata del libro, solo guardando la sua copertina gialla: attenzione, è il mondo di prima che vi parla. L’abbiamo allora preso, senza nemmeno sfogliarlo, volevamo forse fare un tuffo indietro. Indietro, molto indietro. Dodici o tredici mesi fa, quando andavamo, stanchi, dopo una giornata di lavoro, ma con una speranza in cor, in quei cinema là, scomodi, stretti, la speranza di scoprire qualcosa, un volto indimenticabile di qualche ragazza, un paesaggio inusitato, dei mondi. Corri a casa, prima delle 18, come ogni bravo cittadino, e prima di metterti a cucinare, mentre uno ti chiede un pronostico per la partita di domani sera e un altro ti mostra il suo ultimo disegno, distrattamente apri quel libro, che hai comprato lassù dal tuo amico libraio: in crisi d’astinenza da cinema, da quel cinema, vuoi forse solo respirare, ricordando qualcosa. Aspetta, aspetta, parliamo dopo di pallone. Non vedi che sta leggendo? È partito…

Inizio a scorrere quelle pagine e, effettivamente, i miei occhi vi si incollano. Comolli dice la mia indignazione, la mia vergogna anche, di accettare un cinema miniaturizzato. A Rimini, c’è (c’era?), un tristissimo parco tematico in cui qualcuno aveva riprodotto le bellezze artistiche italiane in miniatura e ci guadagnava. Un sacco di soldi. Tutti in fila per entrare. Ci andammo addirittura in “viaggio di istruzione”. Luigi Ghirri ne aveva capito la portata epocale e ha fotografato quelle strane architetture minuscole. Vuoi mettere? Hai tutto sotto mano, vedi tutto quando vuoi. Un giorno andrai a Verona per vedere l’arena, vedila qui adesso. Ho visto il Bentegodi, mi basta… Dai, non scherzare, è un bel parco, i bambini si divertono. I bambini si divertono anche con Netflix, con Disney Channel, ecc. Le diverse piattaforme di cinema in streaming i cui abbonamenti sono esplosi dopo l’inizio della pandemia sono il cinema in miniatura. Come Rimini è l’Italia in miniatura. Mica puoi vedere tutta l’Italia? Mica puoi andare ogni giorno al cinema? Mica scegli tu la programmazione? Se stai a casa almeno puoi vedere tutto quello che vuoi, quando vuoi. Comolli, allora, ci dice innanzitutto una cosa semplice semplice: possiamo vedere dei film a casa, da soli o coi bambini, ma, abbiate pietà, chiamate questa cosa come volete, visione, documentazione, soprattutto non cinema. Le parole sono importanti.

Potremmo ovviamente dire la stessa cosa di una seduta universitaria via Zoom: un’informazione, qualche comunicazione, non un seminario. Ora (ecco perché continuo a leggere, nonostante le rimostranze intorno a me aumentino), questa condanna di Comolli non è affatto malinconica (né autoriale). Forse non è nemmeno una condanna, è la constatazione di un dato di fatto. Con lui, non rimpiangiamo il grande cinema, che vedevamo nelle sale del Quartiere latino, o almeno non rimpiangiamo solo quello. Non è un libro che ci invita alla nostalgia questo, come ci aspettavamo ingenuamente. Non rimpiangiamo niente. Rimpiangiamo forse un’atmosfera, quella che si crea solo nelle sale cinematografiche e in particolare nel cinema documentario (si badi bene, no: “cinema del reale”). È un’atmosfera, un’aria: non è l’aria che respiriamo tutti i giorni, fatta di virus e polveri fini (miscela esplosiva, sembrerebbe). È l’aria che ogni tanto si crea in un cinema quando guardiamo un documentario. È un’aria che non è pericolosa, come quella che sta fuori, quella inquinata, eppure i cinema sono chiusi. Fuori dobbiamo stare distanti. Guai a toccarci. L’aria del cinema è, invece, un’aria che affratella.

Comolli cita il lavoro di Philibert, più sommessamente i suoi propri film, quello su Marsiglia ad esempio. In questi film, il regista riesce a creare una comunità con i soggetti che ritrae, fino a scomparire, perché il film diventa non il suo film, ma l’opera di coloro che dovevano essere solo filmati. Questa comunità si estende, poi, dentro il cinema, a chi guarda il film. Per l’Italia possiamo pensare a un film come A Ciambra (2017) di Jonas Carpignano, in cui il protagonista è Pio, quattordicenne, ma in cui, in realtà, protagonista è tutto il mondo del campo nomade con il quale il regista è riuscito a costruire e scrivere il film.

Oppure possiamo pensare ai film di Agostino Ferrente, a Selfie (2019), ad esempio, in cui il regista, in viaggio a Napoli dopo un drammatico fatto di cronaca, evita l’approccio folcloristico, dall’esterno, dando gli strumenti del suo mestiere a due ragazzini che filmano la loro vita quotidiana, la stessa del giovane ucciso per sbaglio da un carabiniere (ma la violenza di Stato in una periferia non è mai un errore). Il fatto di cronaca è la morte di questo ragazzo, Davide Bifolco. Come renderne conto senza moralismi? Occorre assumere il punto di vista di chi vive in quel quartiere, di chi ha gli stessi anni di quel ragazzo ucciso, di chi gli era amico e lo piange ancora. Ferrente fa un passo indietro: è documentario non il suo sguardo, ma quello di chi conosceva Davide Bifolco. Ferrente mostra il principio di organizzazione formale del suo film facendo diventare autori due ragazzini che si interrogano con profondità sul senso da dare al loro cinema in alcuni momenti indimenticabili del film. È la grande differenza con il cinema di finzione che invece nasconde il suo lavoro, i lavoratori stessi del cinema. È qui che il documentario riesce a creare la comunità fra regista e protagonisti del film.

È a partire da questo comune che si realizza, in Carpignano, in Ferrente, in Comolli, in Philibert, in Marcello Sannino (pensiamo ad un grande film come Corde, 2009) e in tanti altri artigiani del cinema, un’altra solidarietà, quella fra il film e le spettatrici e gli spettatori. Comolli parla di «responsabilità», di «dignità» del cinema documentario proprio riferendosi al rapporto con spettatrici e spettatori. Le spettatrici e gli spettatori sono messi in scena dal cinema documentario, mentre nel cinema di finzione si limitano a guardare storie che non gli appartengono. Il cinema documentario propone agli spettatori dei personaggi che essi avrebbero potuto incrociare per strada, delle conoscenze: dei personaggi, diciamolo chiaramente, che sono dei loro alter ego. Comolli scrive che il cinema documentario offre una sorta di «mise en abyme» agli spettatori. Lo spazio di questa costruzione speculare non può che essere il cinema.

Quando guardiamo un film in casa, siamo, restiamo soli. Non succede nulla. Non respiriamo niente, per riprendere l’immagine di prima. È quest’aria di fraternità che nasce nella sala tra noi che guardiamo il documentario e quello che vediamo sullo schermo che Comolli ci fa riassaporare. Il carattere politico, rivoluzionario, del documentario è in questo “comune”. Destituendo l’imperio degli effetti visivi, sonori, narrativi, cancellando la firma stessa dell’autore del film, il documentario traccia un’altra strada nel regime spettacolare nel quale viviamo. La strada della “parola”. Il documentario di cui parla Comolli è un «cinema di parola» perché intende creare questa comunità a partire da una parola che dallo schermo invade la sala e poi la strada. Questo tipo di cinema incontra oggi molte resistenze.

Comolli parla del rifiuto che la direzione del Festival del cinema del reale (Centre Pompidou) oppone al suo ultimo lavoro, una conversazione con Nicolas Philibert, Nicolas Philibert, hasard et nécessité, 2019 (ricordiamo anche la sua conversazione filmata con Jean Paul Manganaro a proposito di Fellini: A Fellini, romance d’un spectateur amoureux, 2013). “Non c’è niente di nuovo” nel suo film, dicono i responsabili di questo festival a Comolli. È un’idea di documentario la loro, in cui dominano le situazioni, per la quale un dialogo non ha nulla di interessante. Nella conversazione c’è solo il piacere di stare insieme di due o più persone.

Arriviamo al nostro oggi. Non è questo scambio di parole, anche futili, che pone un problema? Il mondo, i mesi, le settimane, i giorni cui siamo adesso consegnati, sono desolanti perché non parliamo, non parliamo di niente, con nessuno, se non di lavoro o di guai. Ingabbiati nelle diverse restrizioni, abbiamo mobilitato molto la retorica dei “corpi” per denunciare alcune imposizioni fatte in nome della nostra salute o della nostra sicurezza (la sovrapposizione dei due termini è la cifra della nostra epoca). Ma è anche la chiacchierata fra amici, fra coloro che stabiliscono un’amicizia, bevendo una birra o parlando di un film, la chiacchierata pettegola delle lavandaie del Finnegans Wake (1939) di Joyce, o la conversazione fra amiche di Pavese/Antonioni, che è fastidiosa agli orecchi dei potenti. La pace è quella condizione in cui circola libera, anche se impotente, una parola.

Luca, Lucaaaa, Lucaaaaaaa, scendi? Fai presto? Il film comincia fra dieci minuti. Corri dopo viene la regista, parliamo con lei. Ha partecipato alla rivoluzione in Siria. Potrà darci qualche idea per il nostro movimento. No, silenzio, nessuno mi chiama. Sto sognando. O è mio figlio che mi scuote, vuole mangiare. Ha ragione. Si sono fatte le dieci e siamo in guerra, nessuno verrà a citofonarmi. I citofoni non esistono neanche più. Ma la guerra sì. Il Presidente della Repubblica non smette di dircelo. È guerra quando qualcuno ti dice di stare zitto, il nemico ti ascolta, c’è altro da fare che ascoltare il dibattito con la regista siriana, le goccioline che escono dalla tua bocca possono essere mortali. Come ritornare alla pace ora? Astra… ci piace solo quando è il nome di un cinema. Ma forse i vaccini possono ristabilire la normalità. La normalità è fatta di abitudini. Qual è la nostra normalità? Dodici mesi sono tanti. Tredici. E non è finita. Andremo ancora al cinema? Chiude uno storico cinema a Roma, poi uno a Trento. A Castellammare già era stato chiuso. Chiudo il libro di Comolli. Ho finito mentre il ragazzo mangia la zuppa di lenticchie. Sorrido. Che hai, papà? Torneremo al cinema a parlare di rivoluzione.

 Jean-Louis Comolli, Une certaine tendance du cinéma documentaire, Verdier, Parigi 2021.

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