Sul limite

di ALESSANDRO CANADÈ 

A ciambra di Jonas Carpignano.

È un film sul limite A ciambra (2017) di Jonas Carpignano. Sin dal toponimo presente nel titolo, che individua uno spazio-ghetto ai limiti della società e della legalità. Il limite e il suo costante superamento, il limite come passaggio aperto, ibridazione, confine mobile è ciò che viene messo in gioco nel film. A partire innanzitutto da una mescolanza di registri e linguaggi diversi.

L’operazione di Carpignano, come è stato anche evidenziato, consiste in fin dei conti nel tenere insieme, e far convivere in vitale tensione, il cosiddetto cinema del reale, e i suoi codici narrativo-estetici, con le forme generiche del cinema hollywoodiano. È lo stesso regista a sottolinearlo: “Dopo aver incontrato i veri protagonisti, ho cercato di rendere il film più simile possibile alle loro vicende, conservando una traccia della struttura drammaturgica”.

L’indagine sul campo all’interno di una vera comunità rom, restituita attraverso l’utilizzo di una macchina da presa incollata alla nuca del protagonista, secondo quella che sembra, all’apparenza, una perfetta applicazione della formula zavattiniana del cinema del pedinamento, dell’evento colto “durante”, si contamina con una scrittura “forte”, che dialoga anche con il cinema nero, criminale (si spiega così forse l’interesse di Martin Scorsese, produttore esecutivo del film, per questa storia che per certi certi versi è anche “un interessante saggio di antropologia mafiosa”, come Farassino aveva definito Quei bravi ragazzi).

Se l’incipit apre il film sotto il segno di una dimensione onirica e favolistica, il crudo realismo della scena successiva la contraddice brutalmente. Confermando così come spesso nel nostro cinema la rappresentazione degli ultimi oscilli tra questi due registri del realismo: uno cronachistico-documentaristico, l’altro favolistico-grottesco (Cervini). Si pensi a due film della coppia De Sica-Zavattini come Ladri di biciclette da una parte e Miracolo a Milano dall’altra. In A ciambra la presenza, ritornante, del cavallo bianco non può non rimandare a Sciuscià, che sembra essere il vero punto di riferimento del film di Carpignano, in quanto costruito anch’esso all’incrocio tra realtà e sua drammatizzazione.

Calandosi nella realtà “neorealistica” di un campo rom della provincia di Reggio Calabria (luogo reale così come i protagonisti che interpetano loro stessi e portano i loro reali nomi), il film ci racconta la storia di una crescita. Un romanzo di formazione, dove però l’apertura, l’incompiutezza, della forma-romanzo si ibrida con la forma chiusa del racconto “d’azione” hollywoodiano. Dove il rito di passaggio del giovane protagonista, Pio, si struttura secondo il modello narrativo neoaristotelico del cinema americano mainstream: i canonici tre atti (impostazione, confronto/conflitto e risoluzione), corrispondenti, a loro volta, alle tre fasi di separazione, iniziazione e ritorno di cui si compongono proprio i riti di passaggio, come ci ha mostrato Van Gennep.

È il “trono” familiare lasciato vuoto dall’arresto del padre e del fratello a offrire a Pio, che cerca di crescere prima possibile, e che è uno dei pochi personaggi in grado di integrarsi con le altre comunità (gli italiani e gli immigrati africani), l’occasione di dimostrare di essere in grado di prendere il posto di questi.

Quello che però è in gioco per Pio non è una prova fisica o di abiltà, ma una scelta. La sua iniziazione consiste nel superamento di un limite, che è di ordine morale (il dilemma che vive Pio non è lontano da quello dei personaggi dei Dardenne, come Rosetta o Lorna, con le quali il giovane protagonista del film di Carpignano condivide la stessa ostinazione e determinazione e il film la stessa “estetica della nuca”).

Il prezzo che Pio deve pagare per la sua crescita è il tradimento: avvicinare, come un novello Giuda, e trattenere con una scusa l’amico “marocchino”, suo mentore, che gli ha offerto aiuto e ospitalità quando il giovane era stato “esiliato” da casa per essersi introdotto nella villa di un boss della ‘ndrangheta in affari con la famiglia, affinché il fratello, con un complice, possa derubarlo dei beni accumulati in un magazzino.

Il superamento di questo limite non è privo di sofferenza ma garantisce la chiusura e il compimento dell’arco trasformazionale di Pio, il suo passaggio all’età adulta. Ed è attraverso una precisa, e significativa, disposizione dei personaggi nello spazio, in due gruppi distinti, che il finale del film mette in immagine questo cambiamento: da una parte il gruppo dei ragazzini (che è quello dei giochi), dall’altra il gruppo dei grandi (quello in cui si prendono le decisioni). Il passaggio da una parte all’altra certifica il suo percorso evolutivo, in un processo di trasfigurazione simbolica dello spazio.

Perché il concetto di limite nel film chiama in causa anche lo spazio, o meglio, in un ennesimo oltrepassamento di un limite, l’accedere nell’inquadratura di luoghi e corpi solitamente esclusi dalla rappresentazione, se non con intenti di informazione o denuncia. La restituzione cioè alla visibilità di luoghi separati, chiusi alla visione collettiva, come sono gli spazi del campo rom o dell’enclave africana mostrati nel film. Spazio delimitato per eccellenza, spazio degli ultimi, degli esclusi, di chi, come dice il nonno a Pio prima di morire, è da “solo contro il mondo”. La macchina da presa di Carpignano, nel suo “stare-con” Pio, permette al nostro sguardo di varcare un altro limite, farci entrare in un altro spazio della visione.

Il cinema, ci ha detto Rancière, è pienamente politico quando i suoi oggetti non lo sono esplicitamente, quando appartiene a un genere che non lo è di per se stesso, ma al contrario quando configura nuove forme di visibilità spingendo al limite il visibile stesso, per oltrepassarlo. Se questo è allora vero A ciambra, restituendo visibilità, voce e sguardo a chi visibilità, voce, sguardo non ha, compie un gesto propriamente politico. E quanto mai, attuale.

Riferimenti bibliografici
AA.VV., “Fata Morgana”, n. 9, Disaccordo, 2009.
A. Van Gennep, I riti di passaggio, Bollati Boringhieri, Torino 2012.
A. Cervini, Ultimi, in Lessico del cinema italiano. Forme di rappresentazione e forme di vita, a cura di R. De Gaetano, vol. III, Mimesis, Milano 2016.

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