I’ll Be Your Mirror è il titolo di una nota canzone di Nico e dei Velvet Underground, che Jean Baudrillard utilizza in un passaggio di Della seduzione. Il centro d’interesse è lo specchio che viene concepito come un dispositivo di auto-rappresentazione che basa la sua operatività psichica ed epistemologica su una natura illusionistica e seduttiva. Secondo il filosofo francese, la proliferazione degli schermi e delle immagini estende e metamorfizza a livello tecnologico le prerogative estetiche e psicologiche degli specchi, inaugurando una nuova soggettività personale che ridefinisce la condizione percettiva ordinaria e i suoi dispositivi di visione (Baudrillard 1980). È il regime del controllo panottico di foucaultiana memoria, che ha nel sistema di video-registrazione a circuito chiuso il suo modello caratteristico. Come ha ben mostrato Marco Senaldi si tratta di uno «“stadio video”: momento ulteriore rispetto al tradizionale stadio dello specchio, di matrice psicanalitica», poiché «lo spettatore vede se stesso in maniera indiretta; vede sì sé, ma non si riconosce, perché la sua immagine è catturata da un apparato di ripresa con un punto di vista estraneo al proprio campo di visione» (Senaldi 2008, pp. 87-88).
Tuttavia, oggi sappiamo che tale modello figurativo ha rappresentato il culmine di una fase – quella video – oramai conclusa. A quella figura iconografica si è, infatti, sostituito un nuovo regime rappresentativo che opera un ribaltamento prospettico sostanziale, radicalizzando la visione frontale e moltiplicando il volto del modello. È la pratica del selfie che promulga con emblematica forza un diverso uso della rappresentazione, così come rivendica diverse genealogie, prototipi e modelli figurativi (Di Gregorio 2017). Ed è proprio a questa modalità d’auto-ritrattistica che si affida il regista in Selfie (2019). Si tratta di un lavoro finanziato da ARTE France a partire da un’inchiesta sulla morte di Davide Bifolco, un sedicenne morto a Napoli nel 2014 ucciso da un colpo di pistola sparato da un carabiniere.
L’idea di Ferrente è quella di concentrarsi su due amici del ragazzo ucciso, oggi sedicenni, che possano raccontarne le vicende dal loro punto di vista, così come la loro quotidianità, la loro amicizia, il legame con il contesto in cui vivono. I due protagonisti sono Alessandro e Pietro che abitano nel rione Traiano e si confrontano quotidianamente con la mancanza del lavoro, con la criminalità, più o meno, organizzata e con l’assenza di una progettualità esistenziale. La scelta stilistica del selfie perde immediatamente il suo gradiente teorico e concettuale per divenire una forma consueta e adeguata alle esigenze dei ragazzi che la utilizzano alternativamente come espediente di confessione e di racconto.
Ferrente non delega, infatti, la regia ai protagonisti ma ne negozia le configurazioni: i protagonisti divengono così, allo stesso tempo, attori sociali e operatori di macchina. D’altronde, Ivelise Perniola, già a proposito dei lavori precedenti di Ferrente realizzati in co-regia con Giovanni Piperno, segnalava che il metodo «è quello di condurre letteralmente per mano l’attore sociale, portarlo a considerare la presenza della macchina da presa come un’opportunità, per far emergere il meglio di sé, le proprie aspirazioni e i propri desideri» (Perniola 2014, p. 127).
Da un punto di vista iconografico si assiste ad un avvicendamento fra primi piani e campi lunghi. Il volto e il paesaggio urbano costruiscono un ritmo di montaggio lento e riflessivo che accosta la situazione statica della confessione a quella dinamica della fuga. Lo sguardo in macchina di un ragazzo che racconta la propria esperienza è spesso, infatti, seguito da una corsa liberatoria in motorino. Lo stesso principio partecipativo tipico del social movie (dove le immagini plurali filmate da diversi autori vengono poi editate da un supervisore, spesso unico) viene qui trasceso da una consapevolezza stilistica ed etica.
La pratica fotografica del selfie introduce nel linguaggio cinematografico una particolare tipologia di racconto in prima persona, che si guarda negli occhi nel momento stesso in cui sta riprendendo e che esula dagli usi e abusi mediatici abituali e conformistici della “selfie mania”. Secondo il filosofo Byung-Chul Han, infatti, «il volto si presenta come prigioniero di se stesso, diventa autoreferenziale, non è più pregno di mondo, dunque non è più espressivo. Il selfie è esattamente questo volto vuoto, privo di espressione. […] Il volto viene levigato a faccia. La faccia non possiede profondità o abissalità: è per l’appunto levigata, priva di interiorità» (Han 2019, pp. 22-23).
Nel film invece il selfie prefigura un’inquadratura chiusa e autosufficiente ma che mette in stretta relazione il primo piano del volto con il contesto sullo sfondo. Non è un caso che il rapporto con differenti ambienti (il bar, il cimitero, la camera da letto) e situazioni (la serenata, il parco acquatico) sia una marca figurativa ricorrente e che spesso stabilisce un senso di comunità proprio nella conformazione a coro teatrale del gruppo di persone che si riprendono. La ricerca della “giusta distanza” dalla quale riprendere e riprendersi è inoltre una chiara attitudine della pratica del selfie, che nel film inscrive una riflessione anche sul senso morale dell’inquadrare (e non a caso viene nominato L’infinito di Leopardi): di ciò che deve (e vuole essere) mostrato o nascosto.
Nel film i selfie si confrontano solo con un’altra tipologia tecnologica di immagini: le registrazioni a circuito chiuso dei sistemi di videosorveglianza. L’abnorme differenziazione di scala e grandezza fra le due forme attiva un senso perturbante nella rappresentazione che mina le stesse acquisizioni identitarie. Il narcisismo e i principi di esibizione del sé lasciano il posto a una riconsiderazione degli stessi valori dell’immagine, dal momento che la fiducia verso le ontologiche “verità” della riproduzione in immagine decadono (come dimostrano i video di sorveglianza dai quali non è possibile decifrare le dinamiche di accadimento dei fatti). Lo stesso regista parla di una contrapposizione metaforica fra l’«anoressia» delle “inquadrature-selfie” e la «bulimia» delle riprese della città invitando a riflettere su come il minimalismo e l’essenzialità prospettica del metodo di ripresa adottato (un iPhone come macchina da presa) aboliscano la mediazione professionale di un operatore esterno e accentuino le risonanze simboliche delle situazioni ritratte.
È così che drammaturgicamente il film si sviluppa per semplice accostamento di metafore visive e concettuali, che rispondono a formule quali “vivere guardandosi allo specchio” o “vedere la vita alle proprie spalle”. In questo senso, la stessa esperienza soggettiva richiede necessariamente un’ulteriore articolazione argomentativa. Molto interessante è, infatti, l’introduzione di una sequenza onirica in cui Alessandro rimette in scena un suo sogno dove la propria vicenda biografica si mescola con quella dell’amico morto. La complessità dell’operazione si evidenzia anche a livello sonoro attraverso una eterogeneità negli statuti delle voice over utilizzate e delle loro relazioni con la componente video, stabilendo un cortocircuito significante tra passato e presente. Così sulla ripresa attuale della strada in cui sono accaduti i fatti filmata da un sistema automatico di sorveglianza, ascoltiamo le registrazioni telefoniche delle richieste di soccorso della notte della sparatoria. Lo spazio filmato apparentemente insignificante e inerte viene investito da una componente emozionale e soggettiva, che ne ribalta le letture e gli orientamenti di senso.
Il film di Ferrente, mettendo in connessione problematica le immagini della videosorveglianza con quelle dell’auto-ritrattistica contemporanea di matrice fotografica, riannoda così i fili concettuali e figurativi di una cultura visuale e social in evoluzione e contaminazione che rielabora acquisizioni e paradossi percettivi già sperimentati dalle arti visive nel corso della propria storia (da Parmigianino a Escher, da Magritte a Nauman) e li sedimenta in un territorio espressivo vivace e in via di continua ridefinizione come il documentarismo contemporaneo: stilisticamente all’avanguardia e teoricamente instabile, soggetto a continue mutazioni, proprio come le acquisizioni identitarie nella società contemporanea. Lo sguardo in macchina, il racconto in prima persona, la condivisione collettiva dei punti di vista esplicitano una nuova tensione espressiva tra pubblico e privato, in cui l’istanza testimoniale del racconto documentario dialoga incessantemente con la riscrittura relazionale dei media digitali, imponendo una nuova modalità di confronto fra “io”, “noi” e gli “altri” e sostanzia un senso identitario e d’appartenenza comunitaria e generazionale in rinnovamento.
Riferimenti bibliografici
J. Baudrillard, Della seduzione, a cura di P. Lalli, Cappelli, Bologna 1980.
L. Di Gregorio, La società dei selfie. Narcisismo e sentimento di sé nell’epoca dello smartphone, Franco Angeli, Milano 2017.
Byung-Chul Han, La salvezza del bello, Nottetempo, Milano 2019.
I. Perniola, L’era postdocumentaria, Mimesis, Milano 2014.
M. Senaldi, Doppio sguardo. Cinema e arte contemporanea, Bompiani, Milano 2008.