Molti critici, come Nicole Richter in The Short Films of Wes Anderson (2014), ritengono che il cortometraggio e la pubblicità commerciale siano il formato che meglio riesca a veicolare lo stile di Wes Anderson: il regista, infatti, riesce abilmente a rappresentare in un ristretto microcosmo un mondo intero, raccontando storie inaspettate che colpiscono l’attenzione dello spettatore anche grazie al lavoro sulla scenografia, sui colori e sulla composizione geometrica. Non potremmo, dunque, affermare di aver terminato la discussione sull’opera di Wes Anderson, senza aver esaminato l’unicità dei suoi cortometraggi e spot pubblicitari.
Il cortometraggio è per Wes Anderson un affidabilissimo mezzo d’espressione e, proprio per questo, può essere sfruttato in diverse circostanze: può fungere da prologo a un lungometraggio (per esempio Hotel Chevalier e Il treno per il Darjeeling, 2007), come spot pubblicitario per una linea di abbigliamento (H&M: Come Together, 2016; Castello Cavalcanti per Prada Classic, 2013), da versione animata dei libri letti da Suzy in Moonrise Kingdom (Moonrise Kingdom: Animated Book Short, 2012), oppure da video clip musicale (pensiamo al brano Aline di Jarvis Cocker, 2021). Non dimentichiamo, inoltre, che la sua filmografia ha inizio proprio con un cortometraggio dal titolo Bottle Rocket (1992): solo tramite questa prima produzione, presentata al Sundace Film Festival, Anderson riuscirà ad ottenere i fondi per trasformare il cortometraggio nel suo primo lungometraggio dallo stesso titolo (1996).
Gli short films del regista, anche quando si tratta di produzioni pubblicitarie, mostrano evidenti continuità tematiche e stilistiche con i suoi lungometraggi: citando e omaggiando dichiaratamente importanti registi come François Truffaut (in Bottle Rocket e nello spot pubblicitario per American Express all’interno della campagna My Life, My Card, 2006) e Federico Fellini (in Castello Cavalcanti), Anderson dialoga con la storia del cinema, senza restare confinato nella struttura temporale impostata tradizionalmente dal lungometraggio.
Fuori concorso all’80° Mostra del Cinema di Venezia e distribuito successivamente su Netflix (insieme ad altri tre cortometraggi), La meravigliosa storia di Henry Sugar, tratto dalla raccolta di racconti Un gioco da ragazzi e altre storie (1977) di Roald Dahl, è la prova di come il cortometraggio sia la forma più adatta ad alcune aspirazioni del regista. Mettere in scena le short stories di Roald Dahl, implica tener conto delle caratteristiche del genere letterario e adeguare ad esse il formato del film: la rapidità del ritmo narrativo (nonostante l’accurata caratterizzazione dei personaggi e la presentazione della situazione iniziale) e la conclusione del racconto su una situazione esemplare e significativa (la svolta esistenziale di Henry Sugar), sono elementi comuni sia al cortometraggio di Anderson che al racconto di Dahl.
D’altronde, le opere di Dahl sono fortemente legate alla narrazione cinematografica: da Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato (1971), Gremlins (1984), Matilda 6 mitica (1996), Fantastic Mr. Fox (2009), fino a Il grande gigante gentile (2016) di Steven Spielberg e Le streghe (2020) di Robert Zemeckis, gli innumerevoli adattamenti cinematografici delle sue short stories testimoniano una grande affinità tra il suo stile e il linguaggio cinematografico.
In La meravigliosa storia di Henry Sugar, come già in altri suoi lungometraggi (si ricordi Grand Budapest Hotel, 2014), Anderson accavalla fluidamente diversi livelli del racconto, consegnando a un primo narratore l’onore di introdurre la storia e, ai successivi, il compito di svilupparla. È un passaggio di testimone quello in cui Roald Dahl (Ralph Fiennes) si congeda dalla narrazione per passarla a Henry Sugar (Benedict Cumberbatch) che inizia a raccontare la sua storia in prima persona. Successivamente è Henry Sugar a immergerci nella narrazione del dottore che, a sua volta, introduce la storia dell’uomo che vede senza occhi, il signor Khan. In comune, tutti i personaggi-narratori hanno l’essere affascinati da una storia che non esitano a narrare. Inoltre, tutti i narratori raccontano guardando in macchina o, meglio, allo spettatore, interpellandolo e trasformandolo in un terzo interlocutore dei dialoghi (pensiamo alla sequenza del dialogo tra Khan e i medici).
Le ambientazioni si sviluppano sotto i nostri occhi come in un continuo cambio di scena (lo studio di Dahl, la casa di Sugar, l’ospedale, lo spettacolo della compagnia, fino alla casa di Khan e al casinò) esprimendo una forte impostazione teatrale: come nell’ultimo Asteroid City, il meccanismo della teatralità, esplicitato dai personaggi-narratori, dalle intrusioni in scena e dai travestimenti, si rivela un gancio metanarrativo, un amo al quale lo spettatore abbocca divenendo costruttore attivo della messa in scena. Infatti, in molte sequenze le ambientazioni non vengono neppure costruite: esse, sostituite da un sipario calato o da un fondale generico, lasciano ampio margine all’immaginazione dello spettatore che, come avrebbe voluto Dahl, conserva la forza creativa e generatrice tipica di un lettore curioso.
Il regista, nonostante mantenga vivo l’intento originale di Roald Dahl – ovvero scrivere al fine di intrattenere in maniera pura e semplice (Burrows 2020) – decide, però, di ri-raccontare la storia di Henry Sugar proprio ora, riflettendo su questioni eticamente e politicamente importanti. Infatti, fin dall’incipit, la storia dell’uomo che vede senza gli occhi, è presentata come una storia realmente accaduta, che pone questioni su cui riflettere: per diventare capace di vedere senza usare gli occhi, Henry dovrà sottoporsi a un training di mesi o anni, attraverso il quale imparerà, semplicemente, a concentrarsi. Come spiega al signor Khan il grande yoghi: “La mente è incostante. Si preoccupa di mille cose diverse allo stesso tempo: cose che vedi intorno a te, cose che ascolti e odori, cose a cui stai pensando, cose a cui cerchi di non pensare. Devi imparare a concentrare la mente in modo da imparare a visualizzare una cosa e null’altro”.
L’indebolimento della capacità di concentrazione dell’essere umano è senz’altro un problema attuale che ha interrogato diversi intellettuali, tra i quali, per esempio, Bernard Stiegler che, nel suo Prendersi cura. Della gioventù e delle generazioni (2014), riprende la questione della de-soggettivazione individuale e collettiva del contemporaneo, declinandola specificatamente in un invito etico-politico a prendersi cura delle nuove generazioni. Secondo il filosofo, che si appoggia alla neuroscienziata statunitense Katherine Hayles, bisogna cercare di potenziare la deep attention degli individui più giovani, che viene oggigiorno ridotta a causa della iperstimolazione sensoriale prodotta dai nuovi ambienti mediali.
Lo strano caso di Henry Sugar sembra, dunque, una storia molto vicina a noi, una storia che non smette di raccontare necessità impellenti, come quella di esercitare il nostro pensiero cosciente, in modo da contrastare l’hyper attention: rielaborare criticamente gli stimoli e riflettere introspettivamente su di essi sono momenti essenziali nella costruzione di un sé libero e critico. Per quanto non potremmo mai essere sicuri delle intenzioni di Wes Anderson, sicuramente il regista è sempre in grado di preoccuparsi di questioni di grande rilevanza filosofica e politica, senza mai rinunciare al piacere della narrazione, alle sue pieghe e ai suoi risvolti: Wes Anderson è un grande narratore del contemporaneo, un costruttore di mondi in bilico tra l’estrema finzione e la più cocente verità.
Riferimenti bibliografici
M. Burrows, The Magic of Terry Pratchet, White Owl, Barnsley 2020.
N. Richter, The short film of Wes Anderson, in The Films of Wes Anderson: Critical Essays on an Indiewood Icon, a cura di Peter C. Kunze, Palgrave MacMillan, Londra 2014.
B. Stiegler, Prendersi cura. Della gioventù e delle generazioni, Orthotes Editrice, Nocera Inferiore 2014.
La meravigliosa storia di Henry Sugar. Regia: Wes Anderson; sceneggiatura: Wes Anderson; fotografia: Robert Yeoman; montaggio: Barney Pilling, Andrew Weisblum; musiche: Alexandre Desplat; interpreti: Benedict Cumberbatch, Ralph Fiennes, Dev Patel; produzione: American Empirical Pictures ; distribuzione: Netflix; origine: Stati Uniti d’America, Regno Unito; durata: 37’; anno: 2023.