The walk: un topolino ammaestrato corre in equilibrio su uno spago in una delle scene iniziali di Le streghe, ultimo film di Robert Zemeckis, distribuito dalle piattaforme streaming a fine ottobre dopo l’ennesimo rinvio dell’uscita nelle sale. Stacco. In una sequenza successiva, un altro piccolo topo afferra una pozione bluastra e la versa nella minestra che lo chef francese di un grande albergo sta preparando. Come il doppio di Rémy nel ristorante di Gusteau, nascosto tra gli scaffali sopra i fornelli di una cucina identica a quella del film Pixar del 2007. Ancora stacco. Siamo negli anni ’60, nella stessa Alabama di Forrest Gump, in cui il piccolo (e genericamente senza nome) protagonista afroamericano del film, divenuto orfano a seguito di un incidente stradale, va a vivere in casa con la nonna. Un ritorno al passato nell’America del black power, delle rivolte e del contropotere, in cui un gruppo di streghe, capitanate dalla Grande Strega Suprema, vuole trasformare in animali tutti i bambini del mondo. Il nostro piccolo eroe, coadiuvato dalla nonna e da due suoi nuovi amici, riesce nell’intento di fermare il malvagio proposito. Dopo esser stati essi stessi “rattizzati”, rubano infatti il veleno magico e trasformano le streghe in orrendi topi vittime di gatti famelici. Il pericolo è sventato, ma la pozione che la nonna escogita per far tornare i tre bambini umani non funziona. Saranno per sempre dei topi, delle minoranze animali insubordinate, che dovranno insegnare alle future generazioni il significato della ribellione e della libertà dalla paura.

Pinocchio, Ratatouille, Stuart Little: si potrebbe andare oltre. È un intero immaginario di sequenze e personaggi quello che precipita nel grande racconto della “nascita della nazione” americana, di un suo momento politico genitivo che affonda le radici nell’attivismo popolare e nei movimenti per i diritti civili dello scorso secolo (di nuovo tragicamente attuali). In altre parole, è il nuovo viaggio di Zemeckis attraverso il cinema e la Storia per riconfigurare in forma fiabesca e immaginaria alcuni passaggi fondativi della società statunitense, dopo il West e gli anni ’50 di Eisenhower (la saga di Ritorno al futuro), il conflitto mondiale (Allied) e l’intero arco del dopoguerra (Forrest Gump). Le streghe come modello rovesciato del “female power” e delle sue componenti misogine (tacchi, guanti, corpetti nascondono organi femminili amputati), la paura come veicolo della questione razziale (il protagonista dell’omonimo romanzo di Roald Dahl del 1983, da cui è tratto il film, è un bambino inglese bianco), la trasfigurazione dei costumi e degli ambienti (l’albergo di Bournemouth che diventa una grande casa coloniale in riva al mare).

Questa volta però, l’equilibrio perfetto che Zemeckis riesce tradizionalmente a consegnare alle sue storie appare più incerto. Perché è come se Zemeckis volesse forzare il suo dispositivo narrativo dentro il grande orizzonte metastorico di una favola “halloweeniana”, non riuscendo del tutto a sconfinare verso un piano metaforico del discorso, in cui la rilettura politica del romanzo di Dahl venga integralmente sviluppata e non solo scolasticamente esibita. Al di là di qualsiasi ordine simbolico, è invece nella straordinaria capacità di Zemeckis di riconfigurare cinematograficamente in chiave horror-fiabesca il rituale di Halloween e la sua potenza rigenerativa che il film trova la sua forza maggiore.

L’esorcizzazione della paura attraverso il mascheramento e la dissimulazione nella straordinaria sequenza in cui il protagonista, dopo aver osservato nascosto sotto il palco “la congrega contro la violenza sui bambini”, viene “topizzato” e fugge attraverso la botola nella parete; oppure la pirotecnica “topizzazione” di tutte le commensali riunite intorno al tavolo dopo aver mangiato la zuppa nella sala ristorante dell’albergo; o ancora la silhouette della prima strega che appare agli occhi del protagonista nel negozio di alimentari. Sequenze in cui gli archetipi fondativi di Halloween (la riunione delle streghe la notte del 31 ottobre, la caccia ai bambini, ecc.), da sempre centrali nell’immaginario (cinematografico) statunitense, trovano una ricodificazione che li riporta alla loro essenza “infantile”, e non a un universo genericamente horror come nei capolavori di Carpenter o Romero.

Ed è proprio in questo scarto tra passato e presente (il film è stato girato nel 2019) che la visione de Le Streghe assume profeticamente la sua straordinaria capacità di significare. L’involontaria celebrazione cinematografica di Halloween nell’epoca Covid, in cui l’esorcizzazione della morte attraverso la maschera prende forma in una realtà dove vita e morte tragicamente si confondono. In cui l’essere in prossimità di bambini, streghe e animali (come già nello straordinario Coco della Pixar del 2017) si contrappone all’epoca dell’isolamento tra i vivi e del distanziamento sociale. E in cui, soprattutto, la rievocazione dell’esperienza cinematografica e collettiva (si veda la sequenza delle diapositive con cui inizia e si chiude il film) confligge con il tempo della “proiezione” solitaria, digitale e intermediale.

Le streghe. Regia: Robert Zemeckis; fotografia: Don Burgess; montaggio: Ryan Chan, Jeremiah O’Driscoll; sceneggiatura: Robert Zemeckis, Kenya Barris, Guillermo del Toro; interpreti: Anne Hathaway, Octavia Spencer, Stanley Tucci, Kristin Chenoweth, Charles Edwards, Jahzir Kadeem Bruno, Codie-Lei Eastick; produzione: Warner Bros, ImageMovers, Double Dare You, Esperanto Filmoj, Necropia Entertainment; origine: USA, Messico; anno: 2020; durata: 106′.

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