In un interno pervaso di luce blu si muovono lentamente, con una sorta di danza sinuosa, giovani corpi. Sono corpi di poeti convenuti in un avamposto di resistenza, un simbolico locale clandestino, The End Lounge Poet, al Jaxx Theatre di East Hollywood, dove risuona la parola poetica, veicolo di palingenesi entro cui le voci dell’umano propiziano una ultimativa “morte e resurrezione” sulle macerie apocalittiche della peste contemporanea: il flagello della pandemia.
Un poeta lancia a gran voce come un proclama il verbo poetico-profetico: “Ecco arrivare il tempo delle profezie senza che ne derivi la morte. Alla fine l’universo scomparirà. Hollywood avrà ciò che si merita. La storia renderà questo film profetico, il governo americano crollerà, ma l’America potrà crollare? Niente crollerà se non i governi. Tutti i governi crolleranno. I soli che non crolleranno saranno quelli buoni, e i buoni non esistono ancora, ma esisteranno, essi esistono già nei nostri scritti e nella morte di Jim Morrison e Allen Ginsberg…”. «This is the end, beatiful friend/This is the end, my only friend/The end of our elaborate plans/The end of everything that stands/The end…»: era la voce di Jim Morrison a echeggiare sulle immagini infuocate di distruzione in Apocalypse now (1979) di Coppola e This Is the End è il titolo del nuovo film di Vincent Dieutre (presentato al XIII edizione del Sicilia Queer Filmfest, dopo essere passato alla Berlinale) cui si riferisce la sequenza di apertura sopra descritta.
Dieutre è un singolarissimo cineasta che persegue con rigore e straordinario senso di densità delle immagini una idea di cinema diaristico, immerso sempre in un vissuto personale e autobiografico ma insieme aperto agli stimoli che gli derivano dall’osservazione ostinata di un reale ogni volta condensato e rifratto negli echi culturali e cinematografici dei luoghi percorsi dalla sua macchina da presa. Perché quello di Dieutre è un cinema di “corpi e luoghi”: il ragazzo che lo accompagna nell’itinerario berlinese delle sue reminiscenze amorose in Mon Voyage d’hiver (2003); oppure i corpi amati dei dipinti di Caravaggio che si rispecchiano nei corpi vivi delle sue storie di amori maschili e nei corpi barocchi delle architetture di Utrecht, Napoli e Roma in Leçons de ténèbres (2000); o ancora i corpi delle marionette cui il mastro puparo Cuticchio ridà vita e voce e che si intersecano agli incontri con gli amici gay e alle riflessioni di Georges Didi-Huberman nel suo personalissimo “viaggio in Sicilia” che è Orlando ferito – Roland blessé (2013).
Questa volta si tratta per Dieutre di mettersi in viaggio verso Los Angeles, la città dove ogni cosa arriva alla sua fine come dice Jean Baudrillard e come la voce di Dieutre ci ricorda. È appunto la sua voce che ci trascina in questo viaggio “alla fine del mondo”, che è anche una dolce e sofferta elaborazione del lutto (c’è una dedica all’inizio, “a mia madre”, e le sue prime parole sulle immagini della pista dell’aeroporto dicono: “Eccomi sono un orfano, assolutamente disponibile”) un modo per suturare una ferita allorché pronuncia un nome “Dean”, dalle cui rughe si dice “benedetto” (blessed in inglese fa assonanza con blessé, “ferito” in francese). Su Facebook Vincent ha ritrovato un suo amante di gioventù, quel Dean (nome non a caso cinematograficamente evocativo), e vuole essere di nuovo pronto “a baciarlo, e baciarlo, e baciarlo ancora”. Decide di raggiungerlo in quella città i cui nomi scritti sui cartelli stradali “Sunset”, “Hollywood”, “Santa Monica”, “Mulholland Drive” sono capaci di evocare le immagini di un tempo perduto, di un cinema perduto. “Fin dall’adolescenza ho avuto l’impressione di assistere alla fine di qualcosa, fine della Storia, morte del cinema, No future.” ci dice Vincent.
Così il film si configura come una specie di cahier intime in forma di road movie, tenendo fede alla natura riflessiva e assorta del “cinema in viaggio” di Dieutre, assumendo il tono di una sorta di “elegia della fine”. Ma in questo caso il suo sguardo adotta un modo dissimulatorio di tenersi, da europeo, a una paradossale prossimità/lontananza con gli spazi orizzontali, con il carattere “desertico” del tessuto urbano di Los Angeles, con quella strana sensazione vertiginosa di galleggiare nel vuoto che la città trasmette: far scorrere le immagini in camera car a bordo di una Ford Mustag, distenderle nel formato scope.
Così le durate insistite lungo le strade, il rallentare o l’accelerare dell’andatura dell’automobile in cadenza con il “flusso di pensiero” degli appunti mentali che risuonano, danno la sensazione di uno scorrere pellicolare all’infinito, perso nel nulla. Così l’uso dello split screen che mette in rapporto lo scorrere di quelle visioni (tra mascherine ancora imballate pronte ad essere vendute per le strade, homeless distesi sui marciapiedi, vecchie sale cinematografiche dismesse) con l’interno del locale da cui si sprigionano gli “urli” poetici di Ginsberg, Bukowski, Rankin, Morrison. Così gli stacchi lancinanti di montaggio sui serpenti che infestano le piscine interpolati alla lettura da parte di Eva Truffaut (la figlia di François) di brani dal libro di un filosofo come Bruce Bégout, riflessioni “ecofenomenologiche” contenute in Los Angeles, capitale du XXe siècle.
Sono riflessioni che si specchiano nelle immagini: come a Los Angeles l’obsolescenza sia una cultura; come il riciclo di tutti gli immaginari urbani serva per mascherare il vuoto che la frammenta e la disperde; come la città dissemini in un ordine precostituito le sue strade, ville, parchi, centri commerciali, servizi, uffici amministrativi; come si deprivi da sé della sua sostanza, assimilandola a una città alleggerita, light, per cui ciò che scompare è la città stessa, volatile perché si è volatilizzata. Ma tali stratificazioni del tessuto filmico in This Is the End trovano il suo nucleo pulsante, il suo battito amoroso negli interieurs in cui i due amanti Vincent e Dean, nello “splendore” della loro vecchiezza, si allacciano, si carezzano, si baciano, percorrono con le mani le curve, le pieghe, i nervi dei loro corpi disperatamente e teneramente di nuovo innamorati.
La camera (l’operatore alla macchina e direttore della fotografia è un altro cineasta eterodosso e inventivo come Arnaud Pasquier) li ascolta e li carezza, li tocca amorosamente a sua volta, ritornando sui gesti interrotti e ripresi con un montaggio interno che come un singulto ripetuto ne estrae la tensione e la delicatezza insieme. Certo nel film scorrono anche gli echi di un cinema amato, da Michael Snow a Chantal Ackerman (su cui Dieutre sta preparando un suo “omaggio” cinematografico), così come viene da pensare ad altri esempi di cineasti che incrociano contemplazione e atto politico come Robert Kramer (e il suo Route One/Usa, 1989), o alle strade perdute e perturbanti di David Lynch. Oppure si creano “cortocircuiti” con le immagini di film che affiorano nella memoria, quasi come dei “ritorni del rimosso“: la piscina e il funerale della scimmietta nel wilderiano Sunset Boulevard (1950) quando nel film si accenna alle scimmie che invadono le piscine in cerca di fresco, o ancora si pensa alla Hollywood cosparsa di sale cinematografiche fatiscenti in The Canyons (2013) di Paul Schrader (nei cui film l’elemento diaristico in voice over gioca un ruolo altrettanto importante che nei film di Dieutre).
Del resto, in This Is the End insiste anche una sorta di wellesiana “potenza del falso”, per dirla con Deleuze, in perfetta assonanza con l’impero dei simulacri, con il vuoto dell’abisso superficiale delle simulazioni, per dirla con Baudrillard: quello che vediamo di Los Angeles sembra assorbito da un “nulla” di esistenza e la “forma della finzione” si nasconde vertiginosamente nell’intreccio complesso del film che annoda altresì il rapporto Europa/America. Ciò risulta da piccoli “inganni” che Dieutre include nel film: l’End Poetry Longue è un set parigino dove sono stati convocati artisti, attori e amici americani residenti a Parigi e la vera identità dello stesso Dean è quella di un greco (Dino Koutsolioutsos) con cui Dieutre entra in contatto su Facebook e che ha la stessa età e lo stesso nome dell’antico amante, morto di aids, e che dunque incarna un fantasma. Ma tutto ciò esalta la flagranza emozionale di una coincidenza tra reale e finzionale. Il vissuto riemerge nel film con la potenza di un atto d’amore che è insieme rivolto al reale come alla sua messa in forma.
Su queste interferenze si costruisce tutta la scrittura filmica permettendo allo spettatore di percorrere un processo che quanto più è singolare tanto più si rende condiviso investendo uno stato del mondo, uno stato universale delle cose. Lo sguardo è indotto a percorrere i ponti sottili tra le immagini e i momenti del film, è condotto a quella “sorta di accettazione del vuoto, di rinuncia al senso” di cui parla Dieutre in un momento tra i più emozionanti del film, quando (ricordando i quadri di David Hockney) siede assorto in un dehor dell’appartamento a fumare, mentre il mondo finisce e il vecchio amore è rinato.
Verso la fine del film Dieutre parla di “terra desolata” e vengono in mente i versi di T. S. Eliot in The Hollow men: «Comportandomi come si comporta il vento/Non più vicino/Non quel finale incontro/Nel regno del crepuscolo[…] Questa è la tenerezza/Le labbra che vorrebbero baciare/Innalzano preghiere a quella pietra infranta. […] È questo il modo in cui finisce il mondo/È questo il modo in cui finisce il mondo/È questo il modo in cui finisce il mondo/Non già con uno schianto ma con un gemito». Quello stesso gemito che è del culmine di agonia così come del culmine dell’amore, e che è il passo leggero di questo film: passo leggero di un viaggio alla fine del mondo.
Riferimenti bibliografici
B. Bégout, Los Angeles, capitale du XXe siècle. Edition Inculte, Parigi 2019.
J. Baudrillard, America, SE, Milano 2016.
T. S. Eliot, Poesie, Bompiani, Milano 2000.
This Is the End. Regia: Vincent Dieutre; sceneggiatura: Vincent Dieutre; produttore: Stéphane Jourdain; musiche: Jean-Mark Schick, Romain Cadilhac; fotografia: Arnold Pasquier; interpreti: Dino Koutsolioutsos, Vincent Dieutre, Éva Truffaut, Jean-Marc Barr, Nelson Bourrec Carter, Geoffrey Carey, Keja Ho Kramer, Elina Löwensohn, Kate Moran; produzione: La Huit Production, Fotogram, ARTE France – La Lucarne; origine: Francia; durata: 108’; anno: 2023.