Prima il padre, ora il figlio. The Son, secondo film (dopo The Father, 2020) della trilogia diretta da Florian Zeller e riadattata dalle sue pièces teatrali, si interroga di nuovo sul sentimento della genitorialità mettendo l’accento, questa volta, sulla cura di un padre nei confronti di un figlio depresso (e non, come nel film precedente, di una figlia nei confronti del padre malato di Alzheimer). Pensandoci bene, il primo film avrebbe potuto intitolarsi senza problemi “la figlia”, così come quest’ultimo “il padre”. Quando un genitore dà vita (una madre quanto un padre) a un nuovo essere umano il legame sanguigno – simbiotico, “cellulare”, come molti film di questo concorso ci stanno raccontando (Saint Omer di Alice Diop, per citarne uno) – sconvolge qualsiasi attribuzione dei ruoli. Genitori e prole non possono essere scritti dal cinema (e dalla vita) se non come materia indivisibile di cui non è possibile raccontare una sola delle parti escludendo l’altra.

Il regista sin dai titoli si prende carico allora, consapevolmente, di un tentativo fallace, quello di scegliere una delle parti per poi, in realtà, raccontarcele sempre e inevitabilmente entrambe – aspettiamo il terzo, The Mother, per confermare una volta di più l’inestricabilità derivata dalla filiazione. In The Son la questione è tuttavia più complessa. Peter (Hugh Jackman) è il padre dell’adolescente Nicholas ma è anche il figlio del magnate Anthony Hopkins, uomo severo e da sempre assente nella sua vita di cui ha paura di ripetere gli errori. La catena biologica raccontata da Zeller ha quindi in questo caso più anelli intersecati, ed è precisamente sulla forza invisibile del legame tra un vecchio padre, un figlio che è anche padre, un ragazzo che è figlio e forse un giorno sarà padre, che costruisce la sua narrazione.

Peter, alla soglia di una svolta nella carriera che sembra finalmente condurlo a lavorare in politica, ha lasciato sua moglie e il piccolo (ora diciassettenne) Nicholas e vive a New York con la sua nuova compagna da cui ha avuto un secondo figlio, Theo. All’improvviso l’ex moglie si presenta alla sua porta e gli dice che Nicholas da un mese finge di andare a scuola, ha comportamenti strani, è infelice, addirittura arriva a confessargli che ne ha paura. Peter, dopo aver ricevuto un’esplicita richiesta d’aiuto dal figlio, decide di accogliere Nicholas in casa e provare ad occuparsi di lui al posto della madre, provocando non poca tensione con l’attuale compagna, che gli rimane al fianco ma è più preoccupata di lui della convivenza e delle attenzioni che Peter è costretto a togliere al nuovo arrivato per occuparsi del primogenito. Peter si illude che la situazione stia migliorando, ma è in primo luogo lo spettatore ad assistere alla degenerazione inesorabile della malattia psichica del ragazzo, fino alla sua terribile conclusione.

L’ossatura piuttosto essenziale della storia si incastona in una forma all’apparenza ordinaria e tuttavia meritevole di attenzione se ci ricordiamo che all’origine del film ci sono la scrittura e lo spazio scenico del teatro. In The Father Zeller aveva fatto la scelta di restare nella cornice circoscritta di un appartamento, ricreando la percezione teatrale della chiusura del set a un qualunque fuori campo che non fosse quello osservato dal protagonista fuori dalla sua finestra, sulla strada. Il cinema interveniva però in modo radicale, utilizzando il montaggio per rendere la sovrapposizione di tempi, ricordi, corpi (la figlia giovane, la figlia grande, la governante) nella coscienza malata del protagonista.

In The Son, al contrario, dello spazio teatrale non c’è nulla. L’azione si svolge in più luoghi, anche simultaneamente, ad un ritmo spesso più sostenuto. Lo testimonia anche solo il bel montaggio alternato in cui al pianto rabbioso di Nicholas in classe, costretto al suo banco, corrispondono i gesti dei genitori al lavoro, il padre in ufficio e la madre mentre lavora alle sue tavole (è una designer) e poi i loro sguardi ad un tratto sopraffatti, come se avvertissero il dolore del figlio. È invece il lavoro sul tempo della singola azione a subire progressivamente, con il trascorrere della pellicola, una più forte analogia con quello del teatro.

Due esempi particolarmente eloquenti: una delle scene più emozionanti, quella in cui Peter, la compagna e Nicholas vivono un raro momento di condivisione e serenità mentre emulano il famoso “fiancheggiamento” dell’uomo quando balla. La camera li riprende dapprima insieme e subito dopo, simulando lo sguardo dello spettatore teatrale che si muove sullo spazio del palcoscenico selezionando di questo di volta in volta una porzione, isola i due amanti per poi, lentamente, spostarsi sulla sinistra e mostrarci il corpo fermo di Nicholas, di nuovo destinato al suo sguardo perso e angosciato.

Ma, ancora di più, l’agghiacciante scena del suicidio del ragazzo. Peter e l’ex moglie prendono la decisione, nonostante i medici glielo sconsiglino fortemente, di riportare a casa il figlio dopo le prime cure d’emergenza ricevute in un ospedale psichiatrico in seguito ad un già avvenuto tentativo di togliersi la vita. Nicholas prepara sorridente del tè e lo porta ai genitori, entrambi seduti sul sofa, in una calma ritrovata che lo spettatore sa  perfettamente preludere ad un finale tragico. Nicholas dice di volersi fare una doccia e va nella sua stanza – immaginiamo che esca di scena dietro le quinte del teatro. La camera resta sull’uomo e sulla donna mentre, con i visi sempre più vicini, pensano che sarebbe bello portare il ragazzo al cinema e ricordano quando da giovani amanti si chiudevano in sala per amoreggiare. Prevediamo con esattezza cosa sta per accadere e, proprio per questo, Zeller non ce lo fa vedere. Decide invece di tornare, proprio alla fine, alla preclusione di un fuori campo che fino a quel momento ci aveva concesso. Dopo alcuni, interminabili, minuti di dialogo arriva il rumore dello sparo da un fuori scena di cui non sappiamo e non vediamo nulla, non sostanziato da una cinepresa in grado di muoversi e addentrarsi nelle smarginature della cornice filmica e anzi fattoci pesare secondo per secondo, aspettando un sussulto che lo spettatore sa di dover associare ad uno spazio unicamente immaginato.

Dunque sì, il sentimento genitoriale e filiale raccontato con un’asciuttezza e una profondità ammirevoli, ma anche, e forse soprattutto, la volontà di dar vita ad una trilogia che racconti come il mezzo teatrale possa incrociarsi fecondamente con quello cinematografico, dando vita a (per il momento) due opere che sappiano trarre dall’uno e dall’altro gli strumenti giusti al fine di trasformare l’«impurità» di un’arte nella sua forza narrativa.

The son. Regia: Florian Zeller; sceneggiatura: Florian Zeller,  Christopher Hampton; interpreti: Hugh Jackman, Laura Dern, Vanessa Kirby, Zen McGrath, Anthony Hopkins, Hugh Quarshie; produzione: See-Saw Films, Florian Zeller, Inthevoid Production; origine: Regno Unito; durata: 124′; anno: 2022.

Share