Sul finire degli anni novanta, in un panorama audiovisivo non ancora colonizzato dalle piattaforme Svod ma già attraversato da importanti cambiamenti estetici e produttivi, Emily Nussbaum elabora una teoria della spettatorialità televisiva fondata sul parallelismo tra la seduta di psicoterapia e la serialità. Proviamo a tracciarne una parziale genealogia.
Per Nussbaum il pre-testo – o meglio l’oggetto d’indagine sui rapporti tra le strutture narrative, l’evoluzione dei personaggi e le pratiche ricettive – sono I Soprano (1999-2007). Nonostante i buoni propositi iniziali, al centro dell’involuzione del patriarca mafioso Toni ci sono proprio le sedute di psicoterapia con la dottoressa Melfi. Secondo la critica del New Yorker, queste sedute erano qualcosa da prendere in seria considerazione per una duplice ragione. In primo luogo, quello che doveva essere uno strumento per curare degli attacchi di panico si trasforma ben presto in uno strano e profondo «esperimento di conoscenza di sé» (Nussbaum 2020, p. 55). In secondo luogo e con il proseguire delle stagioni, l’esperimento terapeutico e introspettivo arriva a coinvolgere la relazione degli spettatori con la serie tv e soprattutto con il suo protagonista.
Inizialmente le sedute erano un veicolo utile per scalfire l’aura di boss irreprensibile a cui i film di Coppola e Scorsese ci avevano abituati e consegnarci così un Toni meno prevedibile, perché scosso da ripensamenti, insicurezze e persino paure. Il protagonista de I Soprano appare sì controverso ma anche complesso e soprattutto ironico, capace di vendette sanguinarie e al contempo di farsi travolgere da un afflato paterno di fronte alla visione di uno stormo di anatre sorprese a galleggiare nella piscina della sua villa. Secondo Nussbaum le cose cambiano e i processi di empatia del pubblico nei confronti di Toni si incrinano, fino a trasformarsi in un «rapporto narrativo sadico» (ivi, p. 61), quando quest’ultimo decide di sfruttare per il proprio tornaconto criminale la conoscenza di sé derivante dalle sedute. Grazie alla terapia Toni era entrato in possesso di «strumenti sempre più sofisticati per affrontare la vita. Ma questo lo aveva fatto diventare un gangster migliore, non un uomo migliore. Ogni nuovo crimine lo faceva sprofondare nel suo sé meno attraente: minaccioso, bestiale, un muro di carne sormontato da un ghigno» (ibidem). Eppure, di fronte a quel ghigno il pubblico ha mantenuto il suo interesse – segno tangibile che l’ambiguità morale dei difficult men (Martin 2018) è uno dei fattori del successo della serialità contemporanea –, a tal punto da scatenare un vespaio di commenti online a proposito del finale sospeso, quello schermo nero con cui David Chase ha scelto di concludere la narrazione.
Con BeTipul (2005-2008), Hagai Levi realizza una serie tv incentrata proprio sulla seduta psicoterapeutica. A proposito del suo adattamento italiano Elisa Mandelli scrive: «La peculiarità di In Treatment – L’appuntamento (2013-2017) risiede […] nel fatto che lo psicoanalista, o meglio il lavoro che egli compie durante gli incontri con i suoi pazienti, diventa centro assoluto della rappresentazione, terreno su cui si dispiegano tutte le dinamiche narrative e i conflitti tra i personaggi» (Mandelli 2017, p. 9). In aggiunta alla dimensione narrativa e all’ambientazione, In Treatment riadatta il rapporto tra terapeuta e paziente anche a livello temporale, andando così ad incidere sul formato seriale e sui modi della sua fruizione. La serie tv è infatti costruita secondo «uno schema rigoroso, che coniuga la serialità della programmazione televisiva e quella della terapia psicoanalitica nella scansione regolare degli episodi: uno a settimana per ciascun paziente, stesso giorno e stessa ora» (ibidem).
Erede de I Soprano e di In Treatment, The Patient (2022) riporta in auge il rapporto tra serialità e seduta psicoterapeutica, sfruttando le potenzialità di quest’ultima dal punto di vista della strutturazione narrativa, della costruzione spazio-temporale e dell’approfondimento psicologico dei personaggi, per poi misurare l’impatto di tali elementi sulla distribuzione e sulle modalità di ricezione.
A livello distributivo, la miniserie ideata Joel Fields e Joe Weisberg deve fare i conti con l’attuale sovraffollamento seriale. Pertanto e con buona pace dell’importanza terapeutica dei tempi lunghi, The Patient si trova “costretta” a contrarre la durata delle sue puntate-sedute a ventuno minuti – fa eccezione il finale che dura il doppio – e a ridurre la sua lunghezza complessiva a dieci episodi, che su Disney + sono stati messi a disposizione tutti insieme simultaneamente.
La pratica terapeutica influenza profondamente sia la costruzione narrativa sia le ambientazioni della miniserie. Se in The Americans (2013-2018), l’opera precedente di Weisberg, ambientata sul finire della Guerra fredda e incentrata su una coppia di spie del KGB che si finge sposata e americana, la casa è uno dei principali spazi narrativi, in The Patient il setting terapeutico si sposta dall’appartamento del dottor Alan Strauss al seminterrato del suo nuovo paziente Sam Fortner. Lo spazio casalingo, accumulo di ricordi dolorosi e verità nascoste, diventa la prigione del dottore che si risveglia su un letto non suo, impedito nei movimenti perché incatenato. Alan è letteralmente costretto a dover proseguire la terapia con Sam che, solo dopo aver rapito il suo terapeuta, gli rivela la sua vera identità, quella di serial killer corroso dal rimorso dei suoi omicidi e apparentemente intenzionato a guarire dal suo disturbo.
Al solido concept narrativo si affianca l’accurata costruzione dei personaggi che si traduce in uno scavo profondo nelle loro personalità, fino alle radici dei loro malesseri. Sotto questo aspetto, The Patient beneficia della magistrale interpretazione dei due attori protagonisti. Steve Carell interpreta un affermato terapeuta che ha perso la moglie a causa di un cancro e vive un accesso conflitto con il figlio Ezra, causato dalla sua conversione all’ebraismo ortodosso. Domhnall Gleeson non indossa la maschera del killer carismatico e sadico, ampiamente rappresentato in altre miniserie come The Inside Man e Dahmer – Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer, entrambe distribuite da Netflix nel 2022. L’interpretazione di Gleeson si allontana dal morboso compiacimento per lo status di feroce criminale e coglie invece l’esasperazione del suo personaggio, prima vittima della violenza paterna e poi pluriomicida, frustato dall’incapacità di arginare la sua rabbia, uno strangolatore seriale che non riesce a evitare di percepire l’alterità come un pericolo.
I personaggi secondari sono costruiti secondo un’opposizione speculare: da un lato l’inazione e la complicità materna, dall’altro la spinta all’introspezione e all’azione della figura del mentore. Inoltre, la loro interazione con i protagonisti apre squarci temporali attraverso i quali la narrazione può farsi largo nei traumi individuali che anche la terapia tenta di far riemergere. La madre di Sam (Linda Emond) è una donna remissiva, che sarà accusata dal dottor Strauss di connivenza sia nei confronti delle violenze subìte dal figlio in età adolescenziale sia in relazione agli omicidi – dei quali è sempre stata a conoscenza – commessi da quest’ultimo. Charlie (David Alan Grier) è il terapeuta di Alan, da tempo deceduto, a cui appare in sogno. Queste epifanie assumono la forma di sedute oniriche, durante le quali Alan rivede il suo passato e a poco a poco reinterpreta le cause del dissidio con il figlio, fino a trovare le motivazioni per elaborare un piano di fuga dalla sua condizione attuale. Oltre a essere la porta di accesso per il dialogo con Charlie, in alcuni episodi, la dimensione onirica produce anche degli incubi in cui Alan, a causa della prigionia e delle sue origini ebraiche, si trova catapultato in un campo di sterminio. Se ne I Soprano la dottoressa Melfi aveva compreso in ritardo, citando un noto articolo di Yochelson e Samenow, i rischi prodotti dalla terapia su una mente criminale, Alan dovrà incontrare in uno dei suoi sogni lo psichiatra Viktor Frankl ad Auschwitz, per realizzare che la sua situazione è di gran lunga peggiore di un incubo.
Sospesa tra incubo e realtà, intervallata da lunghi momenti di autoanalisi e immersioni nell’inconscio, la terapia condotta da Alan si trasforma nello strenuo tentativo di non farsi uccidere, usando le armi della psicoanalisi contro un paziente che desidera guarire dalla sua pulsione omicida ma che al contempo non vuole finire in prigione. In fondo l’intera miniserie potrebbe essere letta come una meta-riflessione sulla terapia, sulla sua efficacia, sui rischi e le potenzialità del transfert e del controtransfert, in ultima “analisi” sul rapporto terapeuta-paziente.
Il pubblico più paziente può partecipare in differita e farsi coinvolgere all’interno della spirale che travolge la terapia e capovolge i suoi ruoli. Se il destino dei personaggi appare ineluttabile, il finale di The Patient riserva più di una sorpresa perché l’attenzione non è rivolta al quando bensì al come. Alan, ormai consapevole della tragedia che lo attende oltre le catene che gli impediscono la fuga, scrive una lettera di addio e di scuse postume ai suoi figli. Dopo averla recapitata, Sam compie un ultimo tentativo di guarigione: fare a meno della libertà. Prende il posto di Alan nello scantinato e trasferisce alla madre il ruolo di carceriera. Agli spettatori e alle spettatrici non resta invece che prendere posto sul divano accanto a Ezra, che nell’epilogo inizia a raccontarsi di fronte al suo terapeuta, e sottoporsi a un’altra terapia seriale.
Riferimenti bibliografici
E. Mandelli, In Treatment. La serialità in analisi, Mimesis, Milano-Udine 2017.
B. Martin, Difficult Men. Dai Soprano a Breaking Bad, gli antieroi delle serie tv, Minimum Fax, Roma 2018.
E. Nussbaum, Mi piace guardare. Critiche e riflessioni sulla tv americana, Minimum Fax, Roma 2020.
The Patient. Ideatori: Joel Fields e Joe Weisberg; Interpreti: Steve Carell, Domhnall Gleeson e Linda Emond; produzione: The JS Scallie Filmworks, Inc FXP; origine: USA, anno: 2022.