Nel saggio Il Dostoevskij di Joseph Frank, David Foster Wallace analizza una biografia del gigante della letteratura russa; mentre si addentra nell’argomento, si pone domande che riguardano la vita di un americano medio alla fine degli anni ’90 (probabilmente con una propensione alla solitudine e alla depressione), ma che sembrano risonanti con i temi di The Americans, una delle migliori serie degli ultimi anni. Il protagonista della serie condivide con Wallace un’esperienza di gruppo di sostegno: lo scrittore con gli AA abbandona l’alcolismo, mentre Philip Jennings, lascia il lavoro di spia grazie ad un’organizzazione di supporto motivazionale molto in voga negli Stati Uniti negli anni ‘80, l’EST (Erhard Seminars Training). Wallace si fa domande esistenziali, che rimangono aperte e senza risposte definitive, partendo da Dostoevskij che è russo, così come gli autori della serie, Joe Weisberg e Joel Fields, si interrogano sostanzialmente sulle stesse cose ispirandosi alla storia vera di due spie russe in incognito negli Stati Uniti degli anni ‘80.
Cos’è un “americano”? Abbiamo qualcosa di importante in comune, in quanto americani, oppure è soltanto che ci troviamo per caso a vivere all’interno degli stessi confini e perciò dobbiamo obbedire a certe leggi? In che modo esattamente l’America differisce dagli altri paesi? Ha davvero qualcosa di unico? Cosa comporta tale unicità? Parliamo tanto dei nostri diritti e delle nostre libertà specifiche, ma ci sono anche delle responsabilità che vengono dal fatto di essere americani? Se sì, responsabilità verso chi?
Nella Washington del 1981, Philip ed Elizabeth Jennings sono due spie russe del KGB che per anni hanno fatto finta di essere sposati e di essere americani. Nel 1966 gli era stato affidato un compito: comportarsi come una famiglia e mimetizzarsi nella società. Dalla loro relazione fittizia però sono nati due figli, Paige e Henry, che sono cresciuti da americani, ignari dell’identità dei genitori. L’incidente scatenante è folgorante: una coppia finta scopre di essere davvero innamorata e si domanda se il matrimonio sia più importante della missione. Philip non ne può più del suo lavoro e chiede ad Elizabeth di mollare tutto per godersi la famiglia. È come se a Philip fosse entrata dentro Perestroika prima che Gorbaciov smantellasse il Comunismo in Europa. Elizabeth invece rimane devota alla causa bolscevica. Per lei l’America continua a rappresentare un paese di dominatori che vivono una vita consumistica, mentre in Russia il popolo muore di fame per arricchirli. Lei può permettersi di fare la spia, che comporta corrompere, mentire, andare a letto con altri e uccidere, può accettare l’ansia di essere catturati e di morire, perché crede che il capitalismo sia il male e il comunismo l’obiettivo da realizzare. Non vuole tradire la Madre Russia, anche perché è davvero brava nel suo mestiere, soprattutto quando lavora con suo marito.
Cosa significa esattamente “fede”? Come “fede religiosa”, “fede in Dio” eccetera. Non è folle credere in qualcosa di cui non si ha la prova? C’è davvero differenza fra ciò che chiamiamo fede e il sacrificare vergini ai vulcani per attirare il bel tempo? Come si fa ad avere fede finché non ci vengono dati sufficienti motivi per averne? O forse avere bisogno di avere fede è già di per sé un motivo sufficiente per averla? Ma allora di quale tipo di bisogno stiamo parlando?
L’obiezione che uno spettatore medio fa dopo aver visto qualche puntata è che non succeda molto. The Americans non ha quell’ansia compulsiva di affastellare il plot di colpi di scena. I critici televisivi americani hanno definito questo stile narrativo slow burning, bruciatura a fuoco lento. C’è uno scopo dietro questa scelta: mimare le dinamiche della guerra fredda. Dopo aver definito i blocchi di partenza, anche un marito e una moglie si muovono come stati tesissimi, pronti ad esplodere (o meglio implodere) da un momento all’altro, proprio come Russia e Stati Uniti. Lavare i panni sporchi nella lavatrice in cantina o preparare la cena tagliando le verdure con un coltello affilato: ogni gesto prosaico si può caricare di un significato politico, così come una missione pericolosa può stravolgere la quotidianità della famiglia Jennings. La violenza, che scoppia all’improvviso, così come l’amore, che lega in modo indissolubile due persone, sono un mistero e di fronte al mistero si sta in silenzio.
Il vero senso della mia vita è semplicemente provare meno dolore possibile e più piacere possibile? Di certo il mio comportamento sembra indicare che è questo che credo, almeno per gran parte del tempo. Ma non è un modo un po’ egoistico di vivere? Lasciate perdere l’egoistico – non è paurosamente solitario?
Nell’ultima stagione il personaggio di una pittrice insegna alla protagonista una regola per disegnare gli oggetti che sembra connessa al modo in cui si dovrebbe guardare la vita in generale: “Quando vedi un vaso, cosa vedi davvero? Vedi ombre e luce. Disegna prima le ombre e arriverai alla luce”. La lezione suona programmatica, tanto banale quanto efficace, come se esplicitasse una direttiva della writer’s room: questo è il modo in cui vanno scritti conflitti e personaggi. I protagonisti compiono un percorso lento e doloroso per passare dall’oscurità alla verità. È così per Philip, quando è costretto a sposarsi ancora per finta con Martha, una donna molto brutta ma anche molto buona, che fa la segretaria per il capo del Controspionaggio dell’FBI. La spia non ne può più dell’ennesima menzogna, fa di tutto per sabotare il falso matrimonio e rivelarsi alla donna.
È possibile amare davvero altre persone? Se mi sento solo e sofferente, chiunque al di fuori di me è un potenziale conforto: ne ho bisogno. Ma è possibile amare davvero ciò di cui si ha tanto bisogno? Grossa parte dell’amore non è forse tenere di più ai bisogni dell’altro? Come ci si aspetta che io subordini il mio bisogno soverchiante ai bisogni di un altro che non posso neanche sentire direttamente? Eppure, se non riesco a farlo sono condannato alla solitudine, cosa che decisamente non voglio… rieccomi quindi a tentare di superare il mio egoismo per motivi personali. Esiste una via d’uscita da questa trappola?
Ed è così anche per Stan Beeman, l’agente dell’FBI del dipartimento che gli sta dando la caccia, che si trasferisce nella villetta accanto alla loro. Dopo aver sepolto i suoi primi sospetti sui vicini, il poliziotto diventa il migliore amico della spia. Ogni giorno, Stan torna a casa e prova a non pensare al lavoro per bersi una birra col vicino volendogli bene per davvero. E anche Philip, nonostante debba stare sulla difensiva, vorrebbe davvero parlargli dei suoi problemi a cuore aperto. Nel corso del tempo questo sentimento lacerante comincia a trapelare da ogni frase o comportamento della spia e conduce l’agente all’intuizione della verità: i Jennings sono le persone che dovrebbe arrestare. Eppure, nel momento del confronto, non ci riesce. Stan tradisce gli Stati Uniti per l’amore sincero che prova per i suoi nemici.
La vita di questo Gesù Cristo ha qualcosa da insegnarmi anche se non credo, o non posso credere, che fosse divino? Cosa dovrei pensare quando mi dicono che uno che era parente di Dio e che quindi avrebbe potuto trasformare la croce in una fioriera o altro con una parola, si è comunque lasciato inchiodare e sia morto? Ma in fondo c’è qualcosa di tutto questo che conti davvero? Posso credere comunque in GC o in Maometto o in Chiunque anche se non credo fossero parenti di Dio? Tranne che, cosa significherebbe allora “credere in”?
Paige Jennings, la figlia maggiore, inizia a nutrire dubbi sull’identità dei genitori ma non riesce a processare il sospetto in un pensiero strutturato. In una scena geniale dal punto di vista freudiano, Paige si avvicina alla camera da letto dei suoi e li trova impegnati in un rapporto sessuale spinto. Quello che scopre spiando è la sua scena primaria. Cercava le spie, ma ha sorpreso gli sposi. Paige vuole identificarsi con qualcosa di più alto di sé. Così, si affilia ad una chiesa protestante, inizia a dichiararsi cristiana e si fa battezzare, scatenando l’ira dei genitori che considerano la religione una forma di sfruttamento. Philip, in un delirio di potenza, le strappa le pagine della Bibbia urlando che deve rispettare i suoi genitori prima di Dio. Dopo aver scoperto la verità, la fragilità dell’adolescente non è in grado di sopportare l’intensità della rivelazione. Paige confessa al capo della sua chiesa di essere figlia di spie russe, ma il segreto rimane protetto dal sigillo confessionale.
Si apre un periodo di confronti con il pastore protestante che mette i Jennings davanti ad uno specchio: in che modo stanno vivendo? Sono consapevoli del male di cui si sono fatti portatori? E Paige, che vita avrà ora che ha scoperto di essere scissa tanto quanto loro? Il rapporto tra Philip ed Elizabeth, finché non si suggella nel rito religioso, rimane un’unione intrinsecamente votata a compiere il male. Sono colpevoli perché consapevoli che il male li devasta ma, giustificati dal fine, continuano a perpetrarlo. Philip dirà ad Elizabeth: “Credevamo in qualcosa di immenso. Ma il sangue versato ricade su di noi”. Finché non si svincolano dalla missione, sono condannati ad essere morti in vita, a reiterare la violenza in forme estreme e inquietanti. Invece per Paige essere cittadina americana diventa un aspetto secondario. Sceglie di seguire il percorso della spia, perché è quello che la lega spiritualmente di più ai genitori, specialmente a sua madre.
Ma se decido di decidere che la mia vita ha un senso diverso, meno egoista, meno solitario, il motivo di questa decisione non sarà il mio desiderio di essere meno solo, e cioè di soffrire meno nel complesso? Può la decisione di essere meno egoista essere mai altro che una decisione egoista?
Gli showrunner hanno detto che The Americans è il racconto di un matrimonio falso che diventa vero. Quando capisce di amarla, Philip chiede ad Elizabeth il suo nome russo – che non conosceva. Ha un desiderio fortissimo di unità che si realizza nella celebrazione del rito matrimoniale ortodosso. In segreto, Michail e Nadezdha (questi i veri nomi) si sposano di fronte ad un pope russo. Ognuno riceve l’altro sotto forma di corona, segno che il marito è l’onore della moglie e viceversa. Il senso di questa storia è tutto in questo rito, ed è proprio quel momento a bruciare la loro copertura, quando anni dopo, nell’ultima puntata, il sacerdote interrogato dall’FBI non può evitare di confessarlo. Il destino di questo amore si scontra con le conseguenze della loro missione. Se il bene per i personaggi deriva dall’autenticità con cui riescono a vivere le relazioni, nel mondo di The Americans l’orizzonte esistenziale più terribile da affrontare non è la morte bensì il distacco dai cari, che nel finale si palesa in una forma di contrappasso escatologico. Nella tragicità della separazione, rimane una speranza: per quanto le circostanze possano ingabbiare in una costruzione identitaria che limita il libero arbitrio, esiste sempre la possibilità di guardare all’Altro e scoprire che i legami possono dare significato all’avvicinarsi della morte.
Come in uno specchio, Philip ed Elizabeth si guardano cercando di trovare un senso. Nel silenzio di una Mosca spettrale, guadagnano il centro dell’inquadratura per fare un bilancio. Sono ormai stranieri nella loro patria. Sono salvi, ma a che prezzo? Il cerchio si è stretto attorno a loro, come quello di una fede nuziale, fino a lasciarli soli. Il mistero di una vita incomprensibile rimane e le parole non possono spiegarlo: la verità è la persona che hanno davanti e la devono ancora scoprire.
Riferimenti bibliografici
D. F. Wallace, Il Dostoevskij di Joseph Frank, in Considera l’aragosta, di A. Cioni e M. Colombo, Einaudi, Torino 2006.