Fin dai titoli di testa The Holdovers – Lezioni di vita ricostruisce, a partire dallo stile ma anche dai temi, uno spazio passato: sono il vecchio logo dell’Universal, il rumore graffiante della pellicola, la grafica rétro e la colonna sonora a indirizzare precisamente le attese spettatoriali. Si tratta di un’opera moderna che guarda al futuro attraverso il passato, riconfigurandolo in un preciso momento della storia del cinema: la New Hollywood. 

Ambientato nel New England negli anni settanta, The Holdovers – Lezioni di vita narra la storia di Paul Hunham (Paul Giamatti), un bistrattato professore di lettere classiche, solitario e particolarmente severo con i suoi alunni, che nel corso delle festività natalizie accetterà il compito di supervisionare i ragazzi impossibilitati a rientrare a casa per le vacanze. Passeranno pochi giorni quando uno dei genitori dei ragazzi si offrirà di portarli tutti in vacanza con sé: solo Angus Tully (Dominic Sessa) sarà costretto a rimanere alla Barton Academy a causa della mancanza del permesso dei genitori che risultano irraggiungibili.

Ricordando a prima vista per ambientazione e contesto iniziale Breakfast Club (Hughes, 1985) e L’attimo fuggente (Weir, 1989), The Holdovers – Lezioni di vita si avvicina nel suo sviluppo a lungometraggi che hanno segnato l’avvento della New Hollywood come Il laureato (Nichols, 1967) e Easy Rider – Libertà e paura (Hopper, 1969): gli zoom improvvisi e i lenti movimenti di macchina, ma soprattutto il ritmo riflessivo e introspettivo, narrativamente sostenuto dai momenti di avvicinamento tra l’allievo e il professore, rimodulano i tratti stilistici e contenutistici che hanno caratterizzato il cinema americano della metà degli anni settanta.

Il rapporto tra Hunham e Angus, segnato da scontri e incomprensioni nate dall’apparente conformazione caratteriale differente (il professore è particolarmente intransigente mentre Angus, ferito dall’abbandono dei genitori, ha un’attitudine ribelle), è mediato dalla cuoca Mary che, assumendo le veci della moglie/madre mancante, mitiga i contrasti che si risolveranno gradualmente fino al viaggio fuori città dei due protagonisti. Il film così, perdendo il carattere collettivo che sembrava contraddistinguerlo e proponendosi come una storia a due (o anche a tre, considerando la presenza di Mary), diviene un dispositivo di ingrandimento dei rapporti umani e della loro evoluzione. È la distanza dal tempo presente a costruire un distacco emotivo che permette allo spettatore di soffermarsi sulle relazioni umane: il triangolo relazionale emana un’aura antica, producendo situazioni e problemi di tempi passati.

Attraverso la rimodulazione di un cinema passato, il regista sembra dichiarare un urgente bisogno umano di relazione che non trovando posto nel tempo presente è rigettato all’indietro, ritrovando lì il suo carattere utopico. Payne con il suo ultimo lungometraggio diventa uno dei rappresentanti di una particolare nostalgia per il passato che, fin dai primi anni 2000 (si pensi a The Future of Nostalgia di Svetlana Boym, 2001) protraendosi poi fino al ventennio successivo (Retrotopia, Zygmunt Bauman, 2017; Il Nostro Desiderio è senza nome: Scritti Politici K-punk/1, Mark Fisher, 2018), si è sviluppata come una sorta di processo di autoanalisi condotto attraverso le immagini del passato (Malavasi 2017, p.113).  

Altri due esempi di questa pulsione nostalgica, che si scarica nell’immaginario new hollywoodiano, sono i recenti C’era una volta a… Hollywood (Tarantino, 2019) e Licorice Pizza (Anderson, 2021): l’ambientazione dei lungometraggi, rispettivamente nel 1969 e nel 1973, tesse una rete intertestuale di riferimenti e ricorrenze culturali che alimentano l’attaccamento a quel preciso spazio geografico e temporale. Il filosofo Mark Fisher, infatti, osserva come ci sia oggi la necessità di ri-raccontare il passato in particolare proprio attraverso gli anni sessanta e settanta: «La controcultura degli anni sessanta è oggi inseparabile dalla sua simulazione, e la riduzione di quel decennio a immagini iconiche, a brani classici e reminiscenze nostalgiche ha neutralizzato le promesse reali esplose allora» (Fisher 2018, p. 365). 

Questo atteggiamento regressivo-protettivo si potrebbe definire come retrotopico (Bauman 2017) in quanto, guardando al futuro come la via dell’umano sempre più ostruita e corrotta, si preferisce intraprendere un cammino a ritroso in cui, attraverso una parziale valorizzazione del passato, si selezionano i suoi elementi più positivi: associando il futuro all’idea del sempre peggio o del sempre uguale, ci rifugiamo nel passato per proteggerci, carichi di nostalgia per i sentimenti, gli atteggiamenti e le immagini ormai sepolte.

Ma se riplasmare il passato rivolgendo l’utopia all’indietro è la prospettiva dalla quale guardiamo avanti, che forma potrebbe assumere il cinema oggi? Assumendo una prospettiva retrotopica, il cinema potrebbe rischiare di fuggire eccessivamente dalle pressioni sociali, politiche e culturali attuali, relegandosi in una zona di confort. Non bisogna però condannare la fuga dal quotidiano che il dispositivo cinematografico produce attraverso la sospensione nel tempo e l’isolamento dallo spazio: il cinema è costitutivamente spazio immaginario e, costituendosi in altri tempi e luoghi, potrebbe riuscire a sfruttare la potenza dell’inattuale per dire cose attuali. Infatti, è proprio la fuga immaginaria a conferire al cinema una maggiore potenza nel prefigurare realtà possibili: ma qualunque fuga esige un ritorno, ed esso non sempre avviene.

Casetti pone puntualmente la questione in Schermare le paure. I media tra proiezione e protezione: «Proteggere presenta sempre dei rischi. Specie quando va fuori misura […] la protezione causa più pro­blemi che soluzioni. Priva gli individui della loro sensibilità mettendoli in uno stato di anestesia, o li priva della pienezza della loro esistenza, mettendoli in uno stato di sospensio­ne» (Casetti 2023, p. 201).

È questo il rischio che corre The Holdovers – Lezioni di vita. Nonostante miri convincentemente a un ritorno dell’umano, ritira le sue tensioni potenzialmente immaginative e trasformatrici in un passato troppo sicuro, consolidato e lontano da qualunque rischio e, questo ritiro, nuoce alla partecipazione affettiva dello spettatore. I fallimenti del professor Hunham e la sua difficoltà nel rapportarsi con gli altri, l’esclusione dalla famiglia che vive Angus, la morte in Vietnam del figlio di Mary, restano fatti tristi e cupi ai quali lo spettatore non viene esposto direttamente, restandone iper-protettivamente salvo.  

In conclusione, The Holdovers – Lezioni di vita avrebbe dovuto osare un po’ di più. Ciononostante, qualcosa di importante resta nel film di Payne come residuo sul quale fondare un futuro migliore: la solidarietà verso l’altro, l’apertura alla sua venuta, il dire di alla sua alterità. Il cinema potrebbe cercare di lavorare retrotopicamente in modo affermativo e trasformativo, configurando spazi sospesi nel passato al fine di restituire all’umano il tempo che gli è stato sottratto.

Riferimenti bibliografici       
Z. Bauman, Retrotopia, Laterza, Roma-Bari 2017. 
F. Casetti, Schermare le paure. I media tra proiezione e protezione, Bompiani, Milano 2023.
M. Fisher, Il Nostro Desiderio è senza nome: Scritti Politici K-punk/1, Minimum Fax, Roma 2018.
L. Malavasi, Postmoderno e Cinema, Carocci, Milano 2017.

The Holdovers – Lezioni di vita. Regia: Alexander Payne; sceneggiatura: David Hemingson; fotografia: Eigil Bryld; montaggio: Kevin Tent; interpreti: Paul Giamatti, Dominic Sessa, Da’Vine Joy Randolph, Carrie Preston; produzione: CAA Media Finance; distribuzione: Universal Pictures; origine: Stati Uniti d’America; durata: 133′; anno: 2024.

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