Credo che oggi nessuno abbia la percezione che le crisi che stiamo attraversando siano il semplice e drammatico succedersi contingente degli eventi. O meglio, in un certo senso lo sono, in quanto accadimenti in cui vengono a convergere spinte eterogenee e verso i quali non possiamo far altro che cercare cause, costruire spiegazioni, assegnare colpe (esercizio vano). Ma in un altro senso ben più profondo no: le crisi belliche, economiche, sanitarie, che investono profondamente la vita di tutti, anche attraverso la mediazione comunicativa, non sono occasionali, ma definiscono la ritmica regolare attraverso cui si distribuiscono ansie e paure che determinano un nuovo ordine delle nostre vite e una nuova funzione del potere: proteggere. Il potere accrescendo la paura rinsalda la sua funzione protettiva. Ma ciò non avviene nel senso di Hobbes per cui il popolo trovava nel potere sovrano un riparo rispetto alla minacciosità dello stato di natura e all’homo homini lupus. Ma in un senso esattamente opposto, in cui la minaccia e la paura abitano le forme stesse della civiltà e della communitas (come in pandemia), e dove lo stato di natura è semmai immaginato come riparo e salvezza (ideologia green).
Francesco Casetti nel suo ultimo importante libro, Schermare le paure. I media tra proiezione e protezione, costruisce una originale archeologia dei media, intorno alle forme moderne che ha preso la paura e alle risposte protettive generate dai dispositivi mediali schermici. Una protezione diffusa e sottratta apparentemente ai dispositivi di potere. L’intuizione del libro (e ogni libro che merita riposa nella sua intuizione di fondo) è quella di costruire un piano in cui tenere insieme la Fantasmagoria di fine Settecento, il cinema della modernità novecentesca e le bolle digitali che segnano il nostro presente.
Se il cinema è il perno del discorso, perché è nel mezzo che si manifesta l’essenza delle cose, ciò che accomuna i tre dispositivi è quel movimento tipicamente rituale di ritiro dal mondo per un ritorno differito e mediato al mondo stesso: «Il complesso proiezione/protezione è il termine con cui definisco questo meccanismo di disconnessione e riconnessione con la realtà che si configura grazie a luoghi chiusi e schermi» (2023, p. 34). Ci si disconnette per i molteplici stimoli che la realtà circostante, soprattutto quella urbana (e qui Casetti ricorda tra gli altri Simmel e Benjamin), genera, e quindi abbiamo bisogno di “distrazioni” e di “addestramenti” per poterla abitare. Ma questa disconnessione e questa fuga devono presupporre un ritorno, pena lo scivolare in una patologica fuga dalla realtà.
Fuga e ritorno nel mondo sono un modo di abitare il mondo stesso, uno dei modi più profondi e radicati, che sia le pratiche rituali che quelle artistiche hanno da sempre attuato. E che la filosofia stessa ha pensato, facendo della contemplazione – e cioè della teoria – una disattivazione della vita pratica (come ci ha detto la Arendt de La vita della mente). Perché quando parliamo di mondo, parliamo di qualcosa che riguarda in primis la nostra prassi. Sospenderla temporaneamente per paura e ritornarvi più addestrati, più flessibili e in ogni caso più pronti, è una delle pratiche allo stesso tempo più profonde e comuni dell’uomo.
L’idea che Schermare le paure sostiene in maniera convincente è che questa pratica e questo compito nella modernità sono passati attraverso dispositivi schermici. Il perimetro spaziale circoscritto, nonché la mediazione dello schermo, attivano l’isolamento protettivo del soggetto: «I confini dello spazio in cui è collocato lo schermo o sono muri concreti – come nel caso della Fantasmagoria, della sala cinematografica, della stazione radar e della sala di controllo – o sono delimitazioni invisibili ma ben presenti, come le barriere che si autoimpone l’individuo nel caso delle bolle digitali» (ivi, p. 32).
Ora, i tre dispositivi oggetto d’analisi sono legati a trasformazioni epocali, storico-sociali, che hanno scandito la modernità: l’epoca della rivoluzioni, a partire da quella francese, per la Fantasmagoria, l’epoca delle masse e della piena modernità urbana per il cinema, l’epoca dell’isolamento e della distanza contemporanei per le bolle digitali (cfr. ivi, p. 196). Ma queste crisi e questi passaggi epocali fanno emergere in modo nuovo un bisogno antico, quello di difendersi dalle minacce e dalle paure che ogni mondo ci riconsegna. Questa difesa passa nella modernità per la mediazione tecnologica che attraverso spazi perimetrati e dispositivi schermici è capace di proteggere il soggetto dalla realtà.
Le risposte protettive dei dispositivi schermici corrispondono nella modernità alla sempre più radicale individualizzazione, fino alla vera e propria insularizzazione sociale che caratterizza l’oggi. C’è un modo democratico e diffuso, individuale e di massa, economico e tecnologico, attraverso cui la difesa dal mondo e il ritorno obliquo ad esso possono attuarsi.
Fuga e ritorno a portata di tutti, delle grandi masse di analfabeti che affollavano le metropoli a inizio Novecento e che si distraevano nei luoghi dello spettacolo, come dei solitari di oggi, divisi tra i molteplici dispositivi degli ambienti domestici. Il cinema in quanto legato alla storia e all’uso degli schermi sembra separarsi dunque da un’arte gemella che l’ha accompagnato nel corso della sua storia, cioè il teatro. La scena costruisce comunità, presa di coscienza collettiva; lo schermo protezione individuale e proiezione immaginaria.
La protezione il soggetto se la sceglie. O detto altrimenti, i dispositivi schermici diventano gli strumenti più naturali e trasparenti di un uso protettivo della tecnologia che non ha più bisogno di passare per l’input esplicito del potere. Protezione che può prendere oggi anche la forma paradossale di una esposizione continua a ciò che di intensamente drammatico arriva dal mondo sui nostri schermi fino a generare una desensibilizzazione e un’abitudine a quello che di intollerabile appare.
Nell’epilogo del volume Casetti mette in allerta rispetto ad un uso iperprotettivo dei media schermici: «Proteggere presenta sempre dei rischi. Specie quando si va fuori misura […] la protezione causa più problemi che soluzioni» (ivi, p. 201). Non si può cancellare il carattere rischioso della vita senza cancellare la vita stessa. Ma cosa ci può proteggere dall’eccesso di protezione a cui ci spingono i dispositivi schermici? Qui vediamo la differenza e la centralità del cinema all’interno della famiglia di media che il libro presenta.
La differenza cinema è che i film – che genera e da cui è generato – sono anche un’arte e dunque una forma espressiva che ha possibilità di costruire fughe complesse dal mondo, che arricchiscono e non semplificano l’esperienza spettatoriale. E che nei casi più grandi mettono in questione le nostre sicurezze e le abitudini consolidate. E dove la protezione è dunque solo apparente, e ciò che conta sono invece le esperienze che la visione è capace di generare. Un grande film determina sempre un’immagine nuova del mondo dalla quale ne usciamo comunque trasformati.
Questo Francesco Casetti lo aveva già affrontato nell’altro suo libro chiave, L’occhio del Novecento: lì il cinema, qui i media, sono pensati a partire da un problema, e dunque da un concetto a carattere antropologico-sociale, che li eccede: lì negoziazione, qui proiezione/protezione. Il cinema e i media per essere compresi e capiti devono essere pensati per il modo specifico in cui danno corpo a un non specifico, sia quando è in gioco la forma, sia quando abbiamo a che fare con un mero dispositivo.
E questo lo vediamo nel corpo vivo delle singole opere di cui siamo spettatori. Così anche quando le cerchiamo per sentirci protetti, ci rendiamo conto che tale protezione è breve e ci ritroviamo presto nuovamente nel mondo e di fronte a noi stessi, come nello straordinario romanzo di Walker Percy, The Moviegoer, dove il protagonista, un uomo comune, «a model citizen» che è «quite happy in a movie, even a bad movie» (2019, p. 7), ma che ritrova nella storia di un film che vede esattamente se stesso: «The movie was about a man who lost his memory in an accident, and as a result lost everything. […] It was supposed to be a tragedy, his losing all this, and he seemed to suffer a great deal. On the other hand, things were not so bad after all. In no time he found a very picturesque place to live, a houseboat on the river, and a very handsome girl, the local librarian» (ivi, pp. 4-5).
Entriamo sempre in un cinema chiedendo protezione, ne usciamo sempre, quando il film è grande, perdendo un po’ della nostra memoria, ma anche fiduciosi e pronti a dire che “dopo tutto non è così male”.
Riferimenti bibliografici
F. Casetti, L’occhio del Novecento. Cinema, esperienza, modernità, Bompiani, Milano 2005.
W. Percy, The Moviegoer, Farrar, Strauss and Giroux, New York 2019.
Francesco Casetti, Schermare le paure. I media tra proiezione e protezione, Bompiani, Milano 2023.