La caratteristica più importante del cinema, secondo il mio modo di vedere, è appunto quella di accettare il materiale delle immagini, questo che io chiamerei l’immaginario contemporaneo, e lavorare su di esso. […] Lavorare a partire da questo, accettare questa infinita complessità ed estrarre da qui un po’ di purezza. […] Non vediamo soltanto le immagini-tempo o le immagini-movimento. Vediamo la battaglia, la battaglia artistica contro le impurità.
Alain Badiou

Partiamo da una piccola premessa. The Disciple è stato presentato in concorso nella scorsa Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (dove ha ottenuto il Premio per la Miglior Sceneggiatura), rafforzando così il rapporto con il giovane regista indiano Chaitanya Tamhane dopo la vittoria nella sezione Orizzonti del 2014 con il notevole film d’esordio Court. Chi scrive non ha visto The Disciple sugli schermi veneziani, bensì su un display casalingo, subito dopo l’uscita del film sulla piattaforma on demand Netflix che ne ha acquisito i diritti di distribuzione internazionale facendolo diventare l’ennesimo “originals” del suo sterminato catalogo. E qui si pone una prima interessante questione critica: la fruizione di un film come The Disciple – che ripropone e problematizza molti stilemi transnazionali del cosiddetto world cinema festivaliero – ha ancora bisogno del tempo e del rito della sala per poter dispiegare al meglio le sue potenze estetiche? Probabilmente sì.

The Disciple invita lo spettatore a condividere un tempo della contemplazione che lo astragga dalla quotidianità sfiorando quell’esperienza ascetica che il protagonista ricerca disperatamente. Certo, ma c’è dell’altro. Perché la visione di questo film su una piattaforma streaming ci invita a operare ulteriori e diversificate riflessioni sullo stato delle cose del cinema nel XXI secolo, in un un discorso non dissimile da Roma – film per il quale Tamhane è stato assistente alla regia, con il suo mentore Alfonso Cuarón che figura qui come produttore esecutivo. The Disciple crea pertanto una fruttuosa dialettica tra le attuali modalità di fruizione dei film (in particolare in era post pandemica) e l’archivio di forme del cinema che assorbe e fa sopravvivere esperienze di visione passate interrogandoci proprio sulla loro assenza (il tempo della sala). Da questo punto di vista il film del giovane regista indiano produce discorsi diversi ma altrettanto interessanti e urgenti se “incontrato” per caso su una piattaforma streaming rispetto al prestigioso appuntamento fissato su un grande schermo festivaliero.

Arriviamo finalmente al film. Ma, a pensarci bene, il discorso non è poi così diverso: il protagonista Sharad cerca di far sopravvivere un’esperienza artistica millenaria (quella della musica classica indiana Khayal) in epoca di fortissime contaminazioni mediali che ne minacciano il tempo d’esecuzione e l’attitudine spirituale di chi la ascolta. Sharad è figlio di un grande musicista e allievo di altro un altro importante maestro, entrambi discepoli di una figura mitica della musica classica indiana (la maestra Sindhubai Jadhav, soprannominata Maai) che ha lasciato come eredità artistica il ricordo delle sue performance e pochissimi nastri delle sue lezioni. Sharad cerca di “acquisire” digitalmente quei nastri diventati un’ossessione personale: il mito di Maai, del resto, si basa proprio sulla mancanza di tracce (sia audio, sia video) perché convinta che ogni mediazione tecnica avrebbe imposto un tempo altro alla sua esecuzione musicale e un differente stato interiore al suo ascoltatore.

Veniamo al punto. Sharad non ha il talento dei suoi maestri e cerca invano di trovare una propria voce nel mondo come studioso che cataloga/riacquisisce musica antica. The Discliple configura proprio questa sfasatura temporale e questo costante mancare il tempo del protagonista che fallisce ogni esecuzione musicale diventando così un personaggio tragico e intimamente “cinematografico”. Perché il cinema (a differenza del Khayal) non ha mai aspirato alla purezza dell’esecuzione al di là di ogni mediazione, nutrendosi bensì di ogni istanza contingente nella «battaglia artistica contro le impurità», per dirla con Badiou. Dall’esperienza contingente di Sharad si dipanano pertanto pieghe temporali stratificate come un flusso di Rāga che confonde flashback o flashforward partendo dagli anni ‘80, ruotando soprattutto sullo snodo esistenziale del 2006, sino ad arrivare alle derive attuali dei talent show e dei social network che contaminano ogni esperienza musicale. I dispositivi che utilizza compulsivamente Sharad segnano il passaggio dei decenni e una inesorabile mediatizzazione della sua attività.

Il regista Chaitanya Tamhane, proprio come il suo protagonista, guarda con devozione le sue alte referenze – dal cinema di Satyajit Ray per l’incontro tradizione-modernità a quello di Jia Zhangke per la straniante rimediazione di usi e costumi nella capillare digitalizzazione dei processi – cogliendo lo spirito del nostro tempo negli scarti significanti che storicizzano ogni esperienza di visione. Sharad è un personaggio perennemente distratto da talent show, youtube, siti pornografici, social network, creando per noi un montaggio intermediale della sua vita tra supporti e dispostivi, intervallato dalla voce di Maai che ci ricorda come “la tecnica deve essere uno strumento per esprimere la vita interiore, ma se prende il sopravvento rimane la perfezione vuota”. Questa traccia memoriale di passato balena come voice over solo nell’attraversamento degli spazi metropolitani di Mumbai con la motocicletta del protagonista inquadrata strategicamente ad altezza sitar. Insomma, gli unici momenti dove Sharad raggiunge la pace interiore per il tempo del Rāga sono gli attraversamenti della città fuori dal palcoscenico e dentro il tempo nella vita.

Ecco allora, al di là di ogni discorso intimamente connesso al processo di creazione della musica tradizionale indiana, il film coglie la battaglia contemporanea per trovare una propria voce tra le tracce di passato sempre a disposizione e il flusso del presente perennemente mediato dalle immagini. Il disilluso Sharad fallisce come musicista – “Non ascolti, manchi di prospettiva, la musica così è senza vita”, gli rimprovera duramente il suo maestro –, ma in questa sua tragica mancanza riesce a testimoniare un’intima verità interiore montando le più disparate tracce mediali che ritrova, acquisisce, cataloga, cancella, sino a commuoverci (e finalmente commuoversi) riscoprendo il mondo negli occhi di sua figlia o nel casuale Rāga di un musicista di strada. Quindi estraendo attimi di purezza dall’impuro. Proprio come uno spettatore del XXI secolo che, tra uno schermo festivaliero e un piccolo display casalingo, attesta la sopravvivenza del cinema come campo di forze ancora capace di generare un pensiero critico dalla riconfigurazione immaginaria di ogni trauma o assenza.

Riferimenti bibliografici
A. Badiou, Del Capello e del Fango. Riflessioni sul cinema, a cura di D. Dottorini, Pellegrini, Cosenza 2009. 

The Disciple. Regia: Chaitanya Tamhane; sceneggiatura: Chaitanya Tamhane; fotografia: Michał Sobociński; montaggio: Chaitanya Tamhane; musiche: Aneesh Pradhan; interpreti: Aditya Modak, Arun Dravid, Sumitra Bhave, Deepika Bhide Bhagwat, Kiran Yadnyopavit, Abhishek Kale, Neela Khedar, Makarand Mukund, Kristy Banerjee, Prasad Canavese; produzione: Zoo Entertainment; distribuzione: Netflix; origine: India; durata: 128′; anno: 2020.

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