Sul pavimento consunto scivola una saponata e sull’acqua si riflette il passaggio lento di un aereo. Un piano sequenza morbido esplora il cortile di una casa. Entra in un appartamento borghese, dove si muove, con gesti e movenze accurate, una domestica. Siamo a Città del Messico nei primi anni settanta, ma anche a “Roma”, il nome del quartiere messicano dove vive la piccola-media borghesia. Siamo dunque in una “atopia” che è insieme lo spazio della storia, della memoria e soprattutto del cinema.

Non è un caso se il nome, che appare reale e simbolico, sia “Roma”, dove si è svolta l’infanzia di Cuarón. Roma, il cinema italiano, il neorealismo. L’elegia del quotidiano, la veggenza dei personaggi svuotati di azione, il tempo continuo dei piani sequenza, rimanda subito all’aura neorealista, filtrata da una fluttuazione spaziale, da un bianconero livido e da uno sguardo sulle piccole cose che ne costituiscono la mise-en-scène.

Il microcosmo familiare, con i tre bambini, la madre, la nonna, il padre (di cui non vediamo il volto e che arriva raramente in casa entrando con la grande automobile nel cortile come un astronauta che fluttua e che subito scompare, introdotto dalle canzonette italiane trasmesse dalla radio), viene attraversato dall’angolo umile del vissuto di Cleo, la giovane domestica (cui spesso si accompagna una governante più anziana), il cui quotidiano il film adotta come punto di convergenza narrativa.

Continuamente si avverte il film come un grande atto d’amore per il cinema italiano (e non solo: nel parallelo tra il mondo della famiglia borghese e quello dei domestici, si pensa a Renoir, e nel ritratto della inerme e remissiva domestica “abbandonata” nello spazio della storia e della memoria, nello scorrere del paesaggio e del tempo,  lento,  limaccioso,  si pensa a Lav Diaz). Sembra di rivedere la cameriera di Umberto D. nell’accurato e meticoloso andirivieni della domestica che pulisce le cacche dei cani nel cortiletto. Sembra di ritornare a un film come Camilla di Emmer nell’afflato della cura con cui la domestica Cleo si dedica ai bambini, che diventa l’attenzione di un flaubertiano “cuore semplice” nella sua muta, affettiva, presenza nelle vicende e negli spazi qualsiasi che scorrono lentamente sullo schermo.

Questo scorrere dei piccoli fatti in cui l’innocente Cleo è come impligliata suo malgrado (l’innamoramento per un ragazzo che fa arti marziali e viene implicato nei disordini politici con un gruppo di estrema destra e che la mette incinta, le serate con i bambini davanti alla televisione, i quotidiani rassetti di casa, l’andare al cinema “abbandonata” nelle braccia del fidanzato…) è cadenzato dallo scorrere accarezzante e assorto della cinepresa negli interni soprattutto, come in un film di Scola, ma anche nelle strade,  nelle periferie, negli sterrati della enorme città, come in Rocco e i suoi fratelli di Visconti, oppure nelle campagne dove un carrello accompagna l’andare dei contadini, come in una immagine di Bertolucci.

Nel film di Cuarón le citazioni della memoria cinematografica si fanno “eccitazioni” della memoria personale,  si sciolgono e si stemperano in un soffuso e diffuso “affetto” che si fa “effetto” di immanenza, cioè filmare l’umano e la vita. E filmarli come l’epica spaziale nel luogo sconfinato di una megalopoli, di un interno familiare, di un paesaggio degli “affetti” come della memoria. Non è un caso se Cuarón immette, nelle memorie anacroniche e cinematografiche, un’autocitazione, facendo apparire improvvisamente due astronauti che fluttuano nel cosmo, come da un vecchio film Abbandonati nello spazio (Sturges, 1969), come nel suo Gravity.

Ma dove il suo filmare pare immerso in un fluido abbraccio di emozione è nella lunga sequenza della gita al mare di Cleo e della famiglia, quando la domestica salva dalle onde dell’oceano i bambini annaspanti nelle onde. Sentimentalismo e un po’ di retorica allignano e passano quando Cleo viene accompagnata a partorire in emergenza: quando all’ospedale lei dà alla luce la sua neonata morta, il cui corpicino viene lasciato fuori fuoco in una lunga inquadratura fissa,  inserita nel pathos di una sequenza che si apre quando alla domestica si rompono le acque nell’automobile che resta imbottigliata nel traffico sotto un cavalcavia. È uno spazio che rimanda all’inizio di Otto e mezzo, nell’ennesima citazione.

Roma fa dunque emergere come la “lingua” del cinema sia italiana anche nell’immaginario di un regista come Cuarón, ormai immesso nell’orizzonte hollywoodiano. Come un’esplorazione dall’andamento circolare, il film si chiude nella stessa pozza d’acqua e di cielo iniziale, rovesciata e riflessa nell’umile esistenza di un pezzo qualsiasi di un pianeta,  nella vita qualsiasi, con il passaggio di quell’aereo che solca le nuvole sporche. Così in cielo come in terra. L’umano, – così è nel grande cinema moderno, nel cinema dell’immanenza, nel reale del romanzesco – resta assorto, silenzioso, innocente e insieme colpevole nell’essere “gettato nel mondo”, abbandonato nello spazio.

Share