Lo specchio (1975).

Vi è un controcampo alla scalinata di Odessa?

Ejzenštejn, e con lui gran parte del cinema sovietico, guardava all’epos, al logos della Storia da identificare nel movimento di una massa e della sua guida. Tarkovskij, radicalizzando la tendenza romanzesca del cinema del Disgelo, compie ne Lo specchio un capovolgimento dello sguardo, così ben sintetizzato nella straniante sequenza d’apertura, in cui un giovane adolescente balbuziente, dopo una seduta di pranoterapia, scandisce finalmente la frase “Io posso parlare”. Condensata in questa formula, c’è la distanza tra intelligencija e potere. La rivendicazione dell’assoluta singolarità della propria voce è atto quanto mai politico, in un regime che faceva della partiticità (partijnost’), ossia della subordinazione della cultura al Partito, la base del rapporto tra potere e intelligencija. Questa rivendicazione apre uno spazio di visibilità alla memoria privata, che non è esaltata in quanto tale, ma è indagata nei suoi intrecci con la memoria storica da una parte e con il presente dal quale parla Tarkovskij stesso. Assistiamo a un processo di rimandi speculari, in cui passato (privato e storico) e presente si proiettano l’un verso l’altro. Facendo interpretare la madre e la moglie alla stessa attrice, Tarkovskij esibisce questo meccanismo proiettivo, che fa del passato e del presente l’uno lo specchio dell’altro. Non vi è punto d’origine, lì dove la memoria è al contempo immaginazione, ricostruzione fantasmatica: il lavoro di proiezione, compiuto da Ejzenštejn montando la riproduzione de L’Illustration con i suoi ricordi di infanzia, è la logica profonda che muove le associazioni de Lo specchio.

Tarkovskij fa però un passo oltre. Non si ferma al riconoscimento dei meccanismi proiettivi, ma trova il centro, se non l’origine stessa, di questi rimandi, facendoli “cortocircuitare” con una traccia documentaria, con un trauma da elaborare: le riprese documentarie compiute nel 1943 da un ignoto operatore dell’attraversamento, da parte dell’Armata rossa, del lago Sivaš, durante la Seconda guerra mondiale. Tarkovskij tratta quelle immagini non come un “cine-pugno”, l’immagine estatica che deve mobilitare il rivoluzionario, ma come immagini acheropite, in cui lo sguardo di un testimone è stato in grado di innalzare la traccia sempre falsificabile a impronta vera: «Sullo schermo era apparsa un’immagine di stupefacente forza e drammaticità e tutto ciò era mio, proprio mio: personale, portato a lungo dentro di me, sofferto […]. La verità, colta con semplicità ed esattezza e fissata sulla piccola, aveva cessato di essere soltanto simile alla verità» (Tarkovskij 1988, p. 122).

Tarkovskij parla di questa sequenza, come Florenskij parlava della Trinità (1425) di Rublëv –  non a caso la teologia di Florenskij, riscoperta negli anni di preparazione dell’Andrej Rublëv (1966), dialoga negli scritti estetici di Tarkovskij, raccolti in Scolpire il tempo, con l’ontologia del cinema di stampo baziniano, che ha come orizzonte teologico l’immagine acheropita della Sindone. Non proiezione di un Io demiurgico, ma testimonianza di qualcosa che finalmente si rende visibile, si apre allo sguardo e ci guarda. Sequenza, sia detto per inciso, che il Goskino voleva che Tarkovskij rimuovesse dal film. A sottolineare la prospettiva liminare di quelle immagini, Tarkovskij aggiunge che quell’ignoto operatore è morto il giorno stesso in cui fece quelle riprese (ibidem).

La Seconda guerra mondiale, come è noto, è chiamata nell’universo sovietico (e post-sovietico) Grande Guerra Patriottica. Il ricordo di questa guerra è divenuta ben presto il mito fondante dell’Unione Sovietica. La vittoria, ottenuta secondo le stime ufficiali con 20 milioni di morti – alcuni studi arrivano a parlare di 26-27 milioni (Cfr. Graziosi 2008, p. 29) –, ha legittimato agli occhi del regime le azioni compiute in nome della rivoluzione, ma si è altresì sovrapposta a essa come riferimento ideale e metro di giudizio, facendo emergere la Russia come centro dell’universo sovietico. Così Stalin, in un brindisi in onore dell’Armata Rossa il 24 maggio del 1945: «Bevo, più di ogni altra cosa, alla salute del popolo russo perché è la più eminente tra tutte le nazioni dell’Unione Sovietica […]. Brindo alla salute del popolo russo non solo perché è il popolo guida, ma perché ha la mente chiara, un carattere forte, ed è paziente» (Graziosi 2007, p. 515).

Il cemento dell’impero sovietico era per lo Stalin vittorioso del 1945 la Russia, più che il patrimonio ideologico bolscevico. E lo è anche per la generazione dei figli di coloro che hanno combattuto quella guerra, pur aspirando a vivere in una società che non faccia della guerra, della logica “amico-nemico”, l’elemento costruttivo della vita-in-comune. Se ci riflettiamo il cinema del Disgelo torna continuamente su questa aporia, da Quando volano le cicogne (1957) di Kalatozov e Ballata di un soldato (1959) di Čuchraj a Ho 20 anni (1963) di Chuciev e L’infanzia di Ivan (1962) dello stesso Tarkovskij. L’eccidio sulla scalinata di Odessa ci parla dell’inevitabilità del conflitto e del dovere etico a prendere parte. L’attraversamento del lago di Sivaš del dolore irrimediabile del conflitto. Non sono immagini che si negano, ma vanno pensate insieme. Sono una il controcampo dell’altra.

Tarkovskij legge quelle immagini, montando su di esse una poesia del padre Arsenij, Vita, vita dalla raccolta Alla terra ciò che è terreno (Zemle Zemnoe, con componimenti scritti tra il 1941 e il 1962). Vediamo soldati esausti attraversare un insieme di baie e lagune ad ovest del Mare d’Azov, dal fondale particolarmente basso (meno di un metro, in media), circondato da minerali che producono effetti ottici particolari, come il colore rossastro delle acque. Il nome di questa distesa lagunare, Sivaš, deriva dal tataro e significa mare marcio. Divide la penisola di Crimea dalla terraferma ucraina. Sono male equipaggiati, trascinano una vecchia imbarcazione e armamenti logorati, gli stivali affondano nel fango. Verso quale confine muovono questi soldati? E perché quei versi, che nel richiamare l’immortalità («Sulla terra non esiste la morte. Tutti siamo immortali. Tutto è immortale. Non bisogna temere la morte né a diciasette né a settant’anni»), la celebrano come vita nella casa («Abitate la casa ed essa non cadrà. Io chiamerò un secolo qualunque, vi entrerò e in essa innalzerò la mia casa»)?

Per rispondere a queste domande, è necessario tornare alla figura dell’intelligent. La domanda che orienta in modo ossessivo l’intelligencija russa, in modo molto più pressante che in altre tradizioni culturali, riguarda proprio l’essenza stessa della Russia, almeno dalle Lettere di un viaggiatore russo (1797-1801) di Karamzin e dalla Prima lettera filosofica (1836) di Čaadaev (Tarkovskij cita esplicitamente nel film la risposta di Puškin a Čaadaev, in una lettera del 19 ottobre 1836). L’intellettuale russo si trova a ripetere lo “scisma”, la rottura traumatica (e violenta) con il passato, compiuta da Pietro il Grande all’inizio del XVIII secolo. Lì dove il passato è negato, è in un futuro declinato messianicamente che si cerca l’identità e la ragione storica della Russia. Questa funzione messianica, che sia espressa dal mito della Terza Roma o da quello d’Ottobre, impone una tensione continua con l’Occidente, letto alternativamente come modello da imitare o da rifiutare. Tensione spirituale, ma che facilmente declina in tensione “geografica”, in ricerca di confini da allargare, se quella funzione messianica è letta in una logica imperiale, secondo un tratto sempre riemergente nella storia russa, al di là degli orizzonti ideologici confliggenti. L’intelligent così da una parte è chiamato a giustificare il suo distacco dal popolo, dall’altro è intimato a farsi cassa di risonanza del potere, che cerca legittimazione per la sua spinta imperiale.

Quei soldati stanchi, sfiniti dalla guerra, probabilmente destinati alla morte, muovono verso un confine invisibile, che non si riduce a quello dei combattimenti sostenuti contro l’esercito nazista. Il confine geografico è trasceso, così da far retrocedere in secondo piano la logica “amico-nemico” che regge tutto l’epos sovietico, a partire dalla scalinata di Odessa. Tarkovskij è costretto dal Goskino ad aggiungere sequenze riguardanti la caduta di Berlino, a ricordare i motivi di quell’avanzata nel fango e nel marcio del lago Sivaš, ma quello su cui il suo sguardo insiste è la memoria immortale di quella sofferenza. Memoria complessa, che agli occhi del Narratore-intelligent, tiene insieme la consapevolezza della giustezza di quel sacrificio con il dolore di una marcia che non è il radioso cammino del logos nella Storia, ma il tentativo di difendere i confini del proprio paese, in una guerra che a sua volta era iniziata col patto Molotov-Ribbentrop e l’invasione di confini altrui (Polonia, Finlandia, paesi baltici).

Quei versi aprono così a una risonanza di senso ancora più ampia. Richiamano ad abitare la casa, ossia a non cercare l’essenza del proprio popolo nel continuo superamento del confine, che non potrà che scivolare in una logica “amico-nemico”. In quei soldati possiamo leggere l’inanità di ogni retorica politica, che inneggia allo sfondamento di confini, cancellando la sofferenza di chi si è sacrificato in nome di quel logos. La sequenza del lago di Sivaš, come la scalinata di Odessa, assume però oggi, nell’attimo del pericolo, un’ulteriore leggibilità: lo sforzo di abitare la casa da parte di uomini e donne ucraini, in quella distesa al confine tra la Crimea e la terraferma.

Riferimenti bibliografici
P. Florenskij, Le porte regali. Saggio sull’icona, Adelphi, Milano 1977.
A. Graziosi, l’Urss dal trionfo al degrado. Storia dell’Unione Sovietica 1946-1991, il Mulino, Bologna 2008.
Id., l’Urss di Lenin e Stalin. Storia dell’Unione Sovietica 1914-1945, Il Mulino, Bologna 2007.
A. Solženicyn, La «questione russa» alla fine del XX secolo, Einaudi, Torino 1995.
V. Strada, Intellighenzia, in Id., EuroRussia. Letteratura e cultura da Pietro il Grande alla rivoluzione, Laterza, Bari-Roma 2005.
A. Tarkovskij, Scolpire il tempo, Ubulibri, Milano 1988.

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