Non sono propriamente animali, quelli del Regno animale. Quelli che vediamo nel Règne animal sono umani che si trasformano in viventi diversi tanto dagli esseri umani quanto dagli animali esistenti. È un Regno a venire (in realtà il regno è già oggi) quello in cui ci lascia cadere Thomas Cailley, non quello perduto nel passato (ammesso appunto che un regno del genere sia mai esistito). 

“Non so se ho più paura di perderla”, dice François (un bravissimo Romain Duris) a Julia (interpretata da Adèle Exarchopoulos), la poliziotta che lo sta aiutando a cercare la moglie scomparsa, “oppure di ritrovarla” aggiunge perplesso. È questo il punto intorno a cui ruota tutto il film che ci proietta in un tempo in cui il nuovo, terribile e meraviglioso, è già fra noi, ma il vecchio non ha ancora smesso di finire.

Nel mondo che sta cominciando gli esseri umani più che trasformarsi in animali propriamente smettono di essere soltanto umani; e così in alcuni casi la trasformazione è completa – è quanto appunto succede a quella che un tempo (prima che il mondo che conosciamo impazzisse) era la moglie di François, Lana, che si trasforma in una bestia dallo sguardo dolce ma del tutto alieno, oppure, come nel caso di Fix (Tom Mercier), in una creatura metà umana e metà uccello.

In effetti l’umano che si animalizza non smette, in qualche modo, di rimanere umano, come Fix che perde la capacità di parlare – il suo verso animale consiste in una serie di bruschi schiocchi sonori – ma non perde la capacità di comprendere il linguaggio degli umani. O come il bambino rana, Grenouille (il film è anche un omaggio alle fables di Jean de La Fontaine), che si arrampica sugli alberi ma mantiene un perplesso viso umano.

Il divenire animale degli umani non è, allora, un tornare verso una animalità perduta, cioè appunto un movimento verso il passato (che peraltro non è mai esistito, quella dell’Homo sapiens, nonostante il senso comune animalista, non è mai stata una specie animale come le altre); al contrario, il devenir animal (Le Règne animal è un meraviglioso omaggio a Deleuze e Guattari) dei personaggi del film di Thomas Cailley è tutto proteso verso la produzione di nuove impreviste e impensabili forme di vita, non più umane, ma nemmeno esclusivamente animali. In questo senso è un film radicalmente postumano. 

La condizione postumana, in effetti, non è quella di un umano più che umano, quella sognata dai transumanisti che immaginano un’umanità ibridata con le macchine e con l’intelligenza artificiale; il postumano, in realtà, è un umano al di là dell’umano, quindi un umano che finalmente si contamina con l’animalità non umana (un Homo che si apre ad essere sapiens ma in modo animale). È quello che succede a Émile, il figlio di François (interpretato da uno straordinario Paul Kircher), il personaggio principale del film (esplicito riferimento all’Émile ou De l’éducation di Jean-Jacques Rousseau). 

Émile, che porta sul viso le cicatrici lasciategli da una zampata della madre in transizione, si accorge dapprima con disperazione che lui stesso si sta trasformando in un lupo, poi man mano non solo accetta questa trasformazione (per questo il nuovo è terribile, perché accade comunque), ma comprende che la nuova vita che gli si presenta è una vita meravigliosa. Meravigliosa non perché sia una vita bella, al contrario, tutto il film non fa che raccontare le enormi difficolta e i pericoli della transizione, ma perché è una vita che permette a quello che una volta era Émile di sperimentare una esistenza radicalmente diversa.

Man mano che il corpo si trasforma – la schiena si arcua, la pelle si copre di un pelo lungo e ispido, le unghie diventano artigli, la faccia diventa un muso – Émile dimentica le sue abilità umane, ad esempio non riesce più ad andare in bicicletta, e soprattutto riesce a parlare con sempre maggiore difficoltà, fino a dimenticare del tutto la parola articolata. In effetti il problema del linguaggio si impone fin dall’inizio del film. Il sogno, o il delirio, nominale vuole che ogni entità abbia un nome, e che ad ogni nome corrisponda un’entità precisa, in modo appunto da non lasciare un’entità innominata, che così facendo rimarrebbe fuori dei nostri schemi e quindi dalla nostra capacità di comprensione.

Ma come nominare gli umani in transizione? Mostri? Bestie? Creature? Esseri? L’indecisione del nome non è soltanto una questione linguistica (perché non esistono mai questioni soltanto linguistiche), è una indecisione sulla cosa stessa: che cos’è Fix, l’uomo-uccello che all’inizio del film vediamo volare via da un’ambulanza? La vera posta in gioco de Le Règne animal è l’idea stessa di una identità fissa (si coglie qui l’ironia del nome “Fix”) e definita una volta per tutte.

Si prenda il colloquio iniziale fra François ed Émile con la dottoressa che “cura” Lana; la scienza e la medicina non riescono a capire nulla di quanto sta succedendo ai corpi che si trasformano (le bestie del film ci ricordano il virus né vivo né non vivo della pandemia, come ce la ricorda la sfilata di autocarri militari che portano i soldati a presidiare i luoghi dove si nascondono i mostri), possono solo imbottirli di sedativi in modo che stiano fermi, che siano appunto controllabili.

Ma appunto, le bestie non sono controllabili, sono anzi l’incontrollabilità stessa della vita. Se il nome assegna una identità, e quindi quella del nome è una sorta di gabbia concettuale, Fix e gli altri mutanti non è che non hanno ancora un nome, incarnano piuttosto l’impotenza stessa del nome ad individuare un’entità e costringerla ad assumere una sola identità. Il nuovo è innominabile.

Da che parte stare, allora, con il nuovo mostruoso o con il vecchio familiare? È il tema “politico” del film, e che prende forma in particolare nelle azioni di François, stretto dall’esigenza di salvaguardare in qualche modo la sua vita di prima, quando Lana era soltanto una donna, e quella nuova e impensabile che vede letteralmente crescere sul dorso bestiale del figlio Émile. All’inizio, pur sapendo di mentire a sé stesso, accetta di accompagnare Lana – o meglio, quella che una volta era chiamata Lana (a proposito di nomi, Lana era il nome che venne assegnato negli anni ’70 ad una scimpanzé coinvolta in un esperimento per insegnarle a usare una versione semplificata del linguaggio umano) – in un centro di raccolta e, almeno in teoria, di “cura” per le bestie. 

È però subito evidente che non esiste cura possibile per le creature, e non esiste perché la loro trasformazione non è una malattia, è un inedito divenire-animale dell’umano. Allo stesso tempo François, quando scopre che anche il figlio si sta trasformando in una specie di lupo, è mosso all’inizio dalla preoccupazione di nascondere la mutazione del figlio, proprio perché vuole evitare che faccia la fine della madre, rinchiusa nell’ospedale-lager dei mutanti. François, cioè, non sa che fare, stretto appunto fra il vecchio e il nuovo.

Intorno a lui gli altri personaggi si schierano, come Nina (interpretata da Billie Blain), l’amica di Émile affetta dalla ADHD (Attention Deficit Hyperactivity Disorder) che per prima intuisce quello che gli sta accadendo, e che proprio per questo se ne innamora; oppure Victor (Gabriel Caballero; il nome ricorda quello del ragazzo selvaggio dell’Aveyron, da cui François Truffaut trasse l’ispirazione per girare L’Enfant sauvage) che si schiera invece dalla parte della “normalità” identitaria, e provoca Émile perché sveli la sua natura mutante. O come la poliziotta Julia, che come rappresentante dell’ordine deve cercare di catturare le bestie, ma come giovane donna attratta dal coraggio di François comincia a dubitare di sé stessa e della propria posizione. 

Un conflitto reso del tutto evidente dalla trasformazione del viso di Émile, che assume – nel corso del film – tratti sempre meno riconoscibili e più inumani, senza però mai smettere del tutto – è proprio questo il punto del divenire animale – di rimanere in qualche modo anche umano. L’operatore logico del cambiamento, come scrivono Deleuze e Guattari in Mille plateaux: Capitalisme et schizophrénie, non è mai la disgiunzione esclusiva, o … o, bensì quella inclusiva, che ammette la compresenza di entrambe le alternative. Non, quindi, o umano o animale, bensì e animale e umano

Ma alla fine, quando François (non a caso il nome di Truffaut) capisce che nel mondo dell’identità – e quindi del vecchio – non c’è altro posto per Émile che l’ospedale-prigione non gli rimane che aiutarlo a fuggire. È la scena più intensa e commovente del film, mentre corrono per la foresta inseguiti dalle macchine della polizia (in una versione postumana sia di The Sugarland Express di Steven Spielberg che di Thelma & Louise di Ridley Scott): «Tu es beau» dice il padre al figlio mentre questo si butta a correre a perdifiato nella foresta. Non c’è più niente da proteggere, Émile non è più “suo” figlio, è stato liberato anche dal vincolo familiare. Ma Émile non è nemmeno solo, come succede invece ad Antoine nel bellissimo finale di Les Quatre Cents Coups, quando corre libero verso il mare. È questo che è cambiato dal 1959 del capolavoro di François Truffaut; oggi i padri stanno dalla parte dei figli. Corri Émile, corri.

Le Règne animal. Regia: Thomas Cailley; sceneggiatura: Thomas Cailley, Pauline Munier; fotografia: David Cailley; montaggio: Lilian Corbeille; interpreti: Romain Duris, Paul Kircher, Adèle Exarchopoulos, Tom Mercier, Billie Blain, Xavier Aubert, Saadia Bentaïeb, Gabriel Caballero, Iliana Khelifa, Nathalie Richard; produzione: Nord-Ouest Films, StudioCanal, France 2 Cinéma, Artémis Productions; distribuzione: I Wonder Pictures; origine: Francia, Belgio; durata: 128’; anno: 2023.

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