Nel settembre del 1981, alla fine di un tour che lo ha impegnato per un intero anno, il trentaduenne Bruce Springsteen si isola dal mondo affittando una casa in campagna nel New Jersey, a Colts Neck, dove trascorre qualche mese in solitudine sprofondando nei ricordi di un’infanzia segnata dalla relazione irrisolta con il padre. Con l’unico mezzo di cui dispone (l’arte di scrivere canzoni), prova a esplorare l’abisso in cui lentamente scivola. Un anno dopo, licenzia il suo sesto album, l’introspettivo e meditativo Nebraska; trascorrono altri due anni e altre canzoni scritte nella casa di Colts Neck vanno a comporre il suo album di maggiore successo, Born in the U.S.A.
Scott Cooper scrive e dirige un biopic ben focalizzato su una vicenda assai nota ai cultori di Springsteen; allo stesso tempo, riesce a enfatizzarne il portato universale, come del resto si propone di fare ogni brano dello stesso songwriter. A incarnare la figura del musicista si dispone con forte intenzionalità letteralmente mimetica Jeremy Allen White, affiancato da Jeremy Strong nei panni del manager e Stephen Graham in quelli del padre di Springsteen: tutti attori celebrati per interpretazioni televisive (rispettivamente The Bear, Succession e Adolescence, tre fra le serie più apprezzate degli ultimi anni), sintomo di un interessante processo inverso alla cinematizzazione del televisivo che ha caratterizzato lo scorso decennio.
In senso aristotelico, il film si propone di sciogliere due nodi: uno è quello della creazione artistica, l’altro è quello del superamento della conradiana linea d’ombra. Il primo nodo si dipana a due livelli, pragmatico e immaginativo. Al livello pragmatico, il film racconta come l’artista fronteggia l’imminente successo non andando incontro, non procedendo in avanti, ma ritraendosi. In questo senso l’album Nebraska e la sua storia produttiva inquadrano Springsteen come un eroe della rinuncia o della ritirata, per usare una felice espressione di Hans Magnus Enzensberger. La struttura del mythos ci presenta sempre un eroe che non accetta l’incarico, che si sottrae al mandato drammaturgico e al destino, ma questa è solo una fase che ha la funzione di sottolineare l’importanza della posta in gioco; infatti poi l’eroe cantautore riprende il cammino verso i giorni di gloria che lo attendono.
Nella fase della ritirata, il mythos concede all’eroe il sostegno del mentore, qui impersonato dal manager Jon Landau, pronto ad ascoltare il sofferente Springsteen e ad assecondarne il folle progetto di rinviare il successo epocale a un’altra occasione, preferendo piuttosto registrare canzoni folk in una cameretta su un quattro piste TEAC. Qui si innesta il livello immaginativo, ossia la pratica creativa: nella cameretta di Colts Neck succede qualcosa di insondabile e inspiegabile, le canzoni sgorgano all’istante, basta aprire un libro di racconti di Flannery O’ Connor o vedere in televisione La rabbia giovane di Terrence Malick. Come nel magnifico A Complete Unknown di James Mangold dedicato al periodo più creativo di Bob Dylan, a questo livello il film di Cooper ribadisce che dell’arte non si sa nulla, ma ancora di più che il fare artistico è non finalizzato, come dice Emilio Garroni: «L’attività artistica è una sorta di metaoperazione che non si propone nessuno dei fini perseguiti dalle operazioni finalizzate» (2024, p. 39).
Nelle dichiarazioni rese dallo stesso Springsteen nel 1984, «affittai una casa e non uscivo molto, e per qualche ragione cominciai semplicemente a scrivere». Tutto sta in quel “for some reason”, che il film non sa, non può e non deve chiarire. Se ne deriva che mentre l’atto performativo può essere registrato dal dispositivo cinematografico, quello creativo no, può essere solo evocato: il cinema può solo dire “il ragazzo sta suonando”, e non “il ragazzo sta componendo”. Allora, se questa interiorità è inaccessibile, il film si concentra sul secondo nodo, il nodo ugualmente interiore che sostanzia l’arco trasformativo del personaggio: affrontare il padre, prima nel ricordo dell’infanzia (in bianco e nero), poi nell’incontro conclusivo, in cui il figlio adulto siede (per la prima volta) sulle ginocchia del padre, in quello che è il principale punto di incandescenza del film, per dirla con Luca Venzi.
Il racconto classico, poi, necessita di un terzo plot relazionale e dunque, come in A Complete Unknown, l’irrisolto dell’artista esonda dall’interiorità alla relazione sentimentale, qui rappresentata dall’incontro con una giovane madre. Unico personaggio del film che non ha una diretta corrispondenza con una persona realmente esistita nella vita di Springsteen, la ragazza mette di fronte l’artista alla paura di diventare padre, che vuol dire anche diventare come il proprio padre (assente, anaffettivo, inaffidabile, finanche violento). In questo perfetto intreccio di linee d’azione e relazione che si inscrivono in un congegno temporalizzato, i veri nuclei di senso del film risultano però essere spazializzati: sono costituiti dalle case, dai luoghi domestici verso i quali il protagonista si rivolge con attrazione o repulsione, rimanendo sulla porta o entrando con tutto sé stesso.
La casa più importante è certamente quella di Colts Neck, una casa rurale molto modesta, che alimenta ancora di più il mito del creatore solitario, della rockstar in autoesilio, come il protagonista di Great Jones Street di Don De Lillo. È una casa qualunque, senza storia, senza un vissuto che interessi in qualche modo il nuovo inquilino, che vuole soltanto stare da solo ma non vuole effettivamente abitare, non è pronto a farlo. All’opposto c’è la casa dell’infanzia, che vediamo non solo nei flashback ma anche nel presente della storia, quando Springsteen va a vederla da fuori, abbandonata e derelitta, oggetto di una sorta di misotopia, di disprezzo per il luogo, come nella famosa scena di Forrest Gump quando Robin Wright lancia un sasso verso la vecchia, odiata casa di famiglia. Ci sono poi la casa della giovane madre, che vive con la figlia piccola presso i propri genitori, ed è una casa in cui il protagonista non entra, rimanendo sulla soglia con più paura che pudore; e infine la casa in California, in cui Springsteen approda per salvarsi e curarsi dalla depressione.
Il polo spaziale antidomestico è invece costituito dalla vita in tour, il non-luogo fatto di palchi e autostrade, camerini e arene, che è forse la dimensione in cui Springsteen ancora oggi si sente sé stesso. La conclusione tematica vera e propria, in cui si afferma definitivamente ciò che si voleva dire, è affidata allora alla voce del mentore, che ricorda all’artista le parole dell’amata Flannery O’Connor, tratte da La saggezza nel sangue: “Il luogo da cui venite è scomparso, il luogo in cui credevate di esser diretti non è mai esistito, e il luogo in cui vi trovate ora non conta nulla, a meno che non riusciate ad allontanarvene. Dov’è il posto in cui potete stare? Da nessuna parte, questo posto non c’è. Nulla fuori di voi può darvi un posto”.
Riferimenti bibliografici
Emilio Garroni, Creatività, Quodlibet, Macerata 2024.
Flannery O’Connor, La saggezza nel sangue, Minimum Fax, Roma 2021.
Bruce Springsteen, Nebraska, a cura di Leonardo Colombati, Sironi Editore, Milano 2012.
Luca Venzi, Le forme della composizione, Pellegrini Editore, Cosenza 2025.
Springsteen – Liberami dal nulla. Regia e sceneggiatura: Scott Cooper; fotografia: Masanobu Takayanagi; interpreti: Jeremy Allen White, Matthew Anthony Pellicano, Jeremy Strong, Paul Walter Hauser, Stephen Graham, Odessa Young, Gaby Hoffmann; produzione: 20th Century Studios, Gotham Group, Night Exterior, Bluegrass 7; origine: Stati Uniti d’America; anno: 2025.