Nel sessantesimo anniversario del festival folk di Newport, in cui Bob Dylan nutrì la mitologia della popular music con un’esibizione spartiacque, il film di James Mangold alimenta a sua volta l’articolato arcipelago cinematografico dylaniano. Se c’è qualcosa in comune a tutte le opere cinematografiche che, in qualsiasi modo, hanno fatto riferimento al più importante autore di canzoni di sempre, questo tratto comune risiede senz’altro nel porre Dylan come enigma irrisolto e irrisolvibile, figura che si può riprendere o raccontare ma non comprendere o conoscere.
In questo senso i due principali biopic dichiarano fin dal titolo il fallimento di ogni ipotesi di indagine sul protagonista: Io non sono qui (Haynes, 2007) era un progetto fondato sull’idea che non c’è “un” Bob Dylan ma ce ne sono svariati, tutti in fuga dall’idea stessa di un ritratto; A Complete Unknown nasce invece da un approccio opposto, ossia accettare la sfida del personaggio unico sapendo che sarà persa in partenza. Con questa operazione il regista James Mangold mette in gioco tutto il suo cinema, anzitutto evidenziando l’intersezione relazionale con Johnny Cash, protagonista del suo Quando l’amore brucia l’anima (2005), e poi tornando a riflettere sul soggetto come moltitudine, che era il nucleo tematico e narrativo di Identità (2003). In particolare, A Complete Unknown può essere considerato il quinto capitolo di una sua personale messa a fuoco degli anni sessanta, insieme a Ragazze interrotte, Le Mans ’66, il pilot della serie tv Vegas e il già citato biopic di Johnny Cash.
L’arco temporale descritto dal film va dall’arrivo di Dylan a New York, nel gennaio del 1961, al concerto di Newport del luglio 1965. Quando arriva a New York è un completo sconosciuto con la chitarra; giunto da un nebuloso nulla che lui stesso infarcisce di leggende, il ragazzo fa visita al suo mito, il cantautore antifascista Woody Guthrie, una delle più influenti voci d’America. Guthrie giace malato in un letto d’ospedale; al suo capezzale trova Pete Seeger, altro grande folk singer che avrà un impatto sulla carriera del giovane songwriter. Da qui in poi ci sono le prime canzoni e le prime esibizioni nei locali, il contratto discografico e, con il secondo album e Blowin’ in the wind, la fama planetaria.
La sceneggiatura è scritta da Mangold con il critico musicale Jay Cocks a partire dal libro Il giorno che Bob Dylan prese la chitarra elettrica, e raggiunge una notevole coerenza interna mediante una struttura classicamente impostata su tre plot: uno pragmatico (la carriera musicale, che è scandita dall’annuale folk festival di Newport, al quale Dylan si esibisce dal 1963 al 1965); il secondo relazionale, in cui agiscono le donne amate e i mentori; il terzo interiore, che nello schema classico dovrebbe ospitare l’arco di trasformazione del personaggio, farci intendere quali fossero le sue mancanze e i suoi bisogni, farci capire in conclusione se e come li ha colmati.
Azione e relazione sono ben saldate, perché il film allestisce un piccolo mondo coeso, una comunità numericamente esigua in cui ci si incontra facilmente, in una dimensione di erranza all’interno di un perimetro ben definito: così, letteralmente, Dylan si imbatte nelle persone che hanno un ruolo nella sua vita. Il campo delle relazioni sentimentali è dominato da due figure opposte, quella della pittrice Sylvie Russo (nella realtà storica Suze Rotolo) e quella della folk singer Joan Baez, accomunate dalla impossibilità di trovare una continuità nel tempo e di cogliere una reciprocità esplicita. In tutti e due i casi, il problema è costituito dal fatto che il ragazzo Dylan non si fa individuare se non attraverso la sua arte, ossia la forma-canzone. Lo si può incontrare, ma non sapere cosa pensa o cosa farà: muoversi, nel periodo storico dello spatial turn, sembra essere l’unica possibilità per dare un senso al vivere. Il campo delle relazioni con le figure dei mentori è occupato sostanzialmente da Guthrie come corpo muto, sofferente, capace di indicare la strada da seguire unicamente attraverso le canzoni che ha scritto; da Pete Seeger (un notevole Edward Norton), l’uomo saggio e risolto che accoglie Dylan in una comunità ma che vorrebbe anche trattenerlo nel suo angusto milieu; da Johnny Cash, l’artista che convive con i propri demoni e riconosce nel ragazzo una parte di sé.
Su un progetto di scrittura così ben strutturato, Mangold fonda una messa in scena costantemente interessata a due tipi di situazioni fondamentali, performativa e relazionale. Il performativo ha luogo negli spazi domestici, negli studi di registrazione e sul palcoscenico; a queste situazioni il film concede tanto tempo, ed è proprio a questo che si deve la durata superiore alle due ore. La canzone, in quanto unico accesso diretto all’interiorità del protagonista, è il più possibile rispettata nella sua compiutezza; l’attore Timothée Chalamet interpreta i brani con la propria voce, restituendo le caratteristiche più evidenti della voce peculiare di Dylan.
Per le esibizioni, Mangold predilige un punto di vista dal backstage verso l’artista e non dalla platea: questo consente al film di continuare a mostrarci la piccola comunità di personaggi, e allo stesso tempo di sottolineare il tentativo di accedere direttamente al protagonista, stando nel privato anche quando Dylan è davanti al pubblico. Per le situazioni relazionali, emerge tutta la capacità di Mangold di produrre cinema classico, iconico, memorabile: pensiamo, in L’amore brucia l’anima, al primo incontro in motel tra Johnny Cash e June Carter, quando lei gli presta un libro; e, in questo film, al primo incontro di Bob Dylan con Joan Baez durante un concerto, quando lui riesce a trattenerla chiamando un applauso del pubblico, e soprattutto alla scena dell’ultimo incontro di Dylan con Sylvie Russo, all’attracco del battello di Newport, quando lui prova a trattenerla ma a separarli c’è una rete metallica, come nella celebre scena di Fronte del porto (Kazan, 1954).
Alla fine, come annunciato dal titolo, Dylan resta per noi uno sconosciuto, anche per effetto della recitazione scontrosa, refrattaria, anempatica di Chalamet, molto efficace nel creare uno sbarramento a tutte le interpretazioni possibili. Con ciò il film di Mangold perviene agli stessi esiti che altri grandi maestri del cinema come Martin Scorsese hanno ottenuto realizzando documentari monumentali come No Direction Home (2005) e Rolling Thunder Revue: A Bob Dylan Story (2019): Dylan è una miniera di storie, ma nessuna di queste storie è abbastanza grande da contenerlo.
A Complete Unknown. Regia: James Mangold; sceneggiatura: James Mangold, Jay Cocks; fotografia: Phedon Papamichael; interpreti: Timothée Chalamet, Monica Barbaro, Elle Fanning, Edward Norton, Boyd Holbrook; produzione: Range Media Partnersm Veritas Entertainment Group, The Picture Company, Turnpike Films; distribuzione: Searchlight Pictures; origine: USA; durata: 140′; anno: 2024.