Lo sapeva bene Serge Daney, critico cinematografico e televisivo di “Libération”: fare zapping non è solo un modo per passare il tempo (e, nel suo caso, guadagnarsi il salario), ma anche un’occasione per esplorare palinsesti, attraversare generi discorsivi e forme visuali, produrre montaggi a basso costo, spesso triviali, talvolta efficaci.

A metà novembre 2020 è uscita la quarta stagione di The Crown, concentrata sul periodo che va dal 1977 al 1990, sul matrimonio tra Carlo e Diana e sull’ascesa e discesa di Margareth Thatcher: prima donna a occupare il posto di primo ministro nella storia del Regno Unito e ultimo leader di una ex potenza coloniale a combattere una guerra per il controllo di un territorio d’oltremare (le Isole Falkland, rivendicate dall’Argentina nell’aprile 1982 e riconquistate dalle forze armate britanniche nel giugno dello stesso anno).

Il 25 novembre 2020 è morto Diego Armando Maradona. La notizia ha fatto il giro del mondo in pochissimi secondi, di schermo in schermo, di chat in chat. Le televisioni hanno riproposto vecchie partite e recenti film dedicati al fuoriclasse argentino, alla sua figura controversa, alle sue prese di posizione politiche, di certo provocatorie, tutt’altro che ingenue. L’emittente televisivo La7 ha riproposto la partita Argentina-Inghilterra 2-1 dei Campionati del Mondo di Mexico 1986, con la telecronaca in diretta, ma inevitabilmente postuma, di Renato Cucchi e Walter Veltroni. Nel giro di pochi minuti, abbiamo rivisto la rete marcata con la mano da Maradona e il “gol del secolo”, unanimemente il più incredibile mai segnato su di un campo di calcio. Abbiamo dunque ascoltato le parole dei telecronisti che contestualizzavano la grandezza di tali gesti sportivi, giustificando la scorrettezza maradoniana in riferimento alla battaglia politica e militare tra Inghilterra e Argentina degli anni ottanta. Del resto, non è stato lo stesso Maradona, in diverse occasioni, a sostenere che il suo gol con la mano – la “mano de Dios” – è stata una forma di rivincita del popolo argentino nei confronti della riconquista delle Falkland/Malvinas da parte dell’Inghilterra e dell’intera storia coloniale?

A fine novembre, il ministro della cultura del Regno Unito Oliver Dowden ha rilasciato una dichiarazione sconcertante: ha chiesto a Netflix di inserire un cartello all’inizio di ogni episodio di The Crown per precisare che si tratta di una finzione e non della realtà dei fatti. A ben vedere, cartelli del tipo «ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale» caratterizzano la storia del cinema e della serialità sul medio e lungo periodo. Ma il Ministro ha sottolineato che la necessità di tale precisazione all’inizio degli episodi di The Crown non è tanto dettata da esigenze di tutela legale della produzione o dalle occasionali incongruità della narrazione rispetto all’evoluzione dei fatti storici. Il cartello riguardante il carattere finzionale del racconto sarebbe piuttosto mirato a esplicitare agli spettatori presenti e futuri che quella sullo schermo è una recita e non la realtà stessa: “Ho paura che le future generazioni di spettatori possano confondere i fatti con la loro rappresentazione fantastica”, ha dichiarato il politico.

Dove porta l’accostamento di queste tre cose, tanto diverse tra loro? Che cosa c’entra l’uscita della quarta stagione di una serie dedicata agli anni ottanta in UK con la morte di Maradona e con la dichiarazione di un ministro? All’incrocio di questi tre accadimenti, si ritrova il rapporto tra storia e finzione che ha caratterizzato buona parte del dibattito teorico e filosofico novecentesco, ma anche la riflessione sulle arti e sul cinema. Senza inserire dense citazioni da Marc Bloch, Hayden White o Paul Ricoeur, è possibile sintetizzare la questione attraverso alcune domande semplici: se anche la storia si basa sul racconto, come distinguerla dal romanzo? E che cosa c’è, in un romanzo, in un film o in una partita di calcio, di rilevante dal punto di vista storico e sociale? Come elaborare lo shock di una ferita, di una scomparsa, e come gestire il carattere traumatico di ciò che genericamente chiamiamo “reale”? È possibile distinguere nettamente e aprioristicamente finzione e realtà, oppure occorre percorrere lo spazio di contaminazione tra i due livelli?

Nel suo carattere parossistico, la richiesta del Ministro sembra fornire alcune risposte a tali domande. Ci dice qualcosa del rapporto che intratteniamo con il racconto storico. Ma ci fornisce anche molti spunti di riflessione sulla nuova stagione di The Crown, sui suoi limiti e sul deterioramento che operazioni di questo tipo rischiano di produrre sulla memoria collettiva.

In primo luogo, l’idea di inserire un cartello riguardante il carattere finzionale delle immagini mostrate nella serie riguardante la Regina e il Primo ministro inglese tende a produrre un’infantilizzazione del pubblico, presuntivamente incapace di comprendere il carattere “ibrido” di qualsiasi realtà sociale. Tale idea si fonda inoltre sul presupposto che lo spettatore-infante ragioni in modo binario, etichettando ora come “finzionale” ora come “reale” ogni immagine (una polemica simile era scoppiata nel 2012, all’uscita di No. I giorni dell’arcobaleno, 2012, di Pablo Larraín, dove le scene finzionali sono girate con vecchie telecamere U-Matic in formato 4:3, come le immagini prelevate dagli archivi televisivi degli anni ottanta e inserite nel film). Ma, ancora di più, attraverso tale pratica di etichettatura, attraverso questa codifica manichea, il rischio è quello di suscitare un impoverimento delle dinamiche di elaborazione di una memoria collettiva. Si rischia di ossificare l’immaginazione sociale, un processo aperto nel quale il finzionale e il reale si  sovrappongono e intrecciano.

Se è facile prendersela con il Ministro, meno facile è rendersi conto che le sue dichiarazioni ci dicono qualcosa di interessante su The Crown. È questa nuova stagione, infatti, a schiacciare sul mero gioco delle somiglianze il rapporto tra la referenza storica e la rielaborazione cinematografica. Se il racconto dei fatti si sviluppa in profondità di campo e il montaggio tende a oggettivare il racconto, gli interpreti sono dei sosia migliorati dei modelli storici: simulano i loro tic e le loro posture, enfatizzano i loro limiti. La dote principale degli interpreti di Carlo e Diana è che “assomigliano” ai personaggi reali. Allo stesso modo, la performance attoriale e vocale di Gillian Anderson dà forma a una Margareth Thatcher perfetta, da museo delle cere.

In tal senso, la richiesta del Ministro non va contro gli obiettivi dei creatori della stagione, ma coglie il loro desiderio nascosto: sublimare la storia nella finzione, nient’altro che finzione, just fiction. Ripensare la storia come mera finzione significa infatti eleggere la categoria di finzione a disclaimer: dichiarazione di limitazione di responsabilità, clausola di esonero, liberatoria dal reale. Si tratta di un presupposto estetico prima ancora che legale e politico, capace di disimpegnare tanto gli sceneggiatori e i registi quanto gli spettatori, tutti finalmente liberi di appassionarsi a storie tanto più “vere” quanto più esageratamente verosimili. È così che – una volta emendata quella realtà sociale che Thatcher stessa mirava ad annichilire – possiamo permetterci di entrare nelle stanze dei bottoni, nei gabinetti: spiare Elizabeth, Carlo, Diana e Camilla nelle loro vicende intime. Per questa via, senza neppure accorgersene, si oltrepassa quella soglia voyeuristica violentemente raggiunta dai paparazzi, protagonisti delle tragiche vicende della famiglia reale britannica ma paradossalmente assenti o molto poco presenti in The Crown.

Possiamo dunque sedere a tavola con Margareth mentre offre ai suoi collaboratori un piatto amorevolmente e sbrigativamente cucinato e, intanto, decide la strategia da adottare per riprendersi le Falkland o per stravolgere la cultura civile e politica del Regno Unito. Per quanto si trovi al centro dell’episodio 8, anche la questione storica dell’apartheid in Sud Africa viene raccontata come una sfida tra le due donne più potenti del Regno Unito e del mondo intero nel corso degli anni ottanta. Le immagini d’archivio della liberazione di Nelson Mandela sfilano a conclusione di un episodio più interessato a ricostruire le sfumature psicologiche ed emotive della signora Thatcher che a mostrare il controcampo sociale e politico delle sue scelte politiche e geopolitiche. Se nelle precedenti stagioni il rapporto tra il racconto mediatico della storia, i cerimoniali di Stato e la messa in scena cinematografica delle vicende private della famiglia reale era tematizzato e problematizzato, nella quarta le potenzialità critiche e testimoniali di un montaggio intermediale sembrano assenti o svilite.

Quella della nuova stagione di The Crown è, in altre parole, una finzione chiusa in se stessa, incapace anche solo di riflettere, in modo autocritico, su quella condizione di clausura che coinvolge i detentori del potere politico e la macchina dei media. Concependo la finzione come disclaimer, il risultato è un mondo fatto di cera ma senza incanto. È un mondo narrativo in cui gli unici personaggi che esistono sono famosi per stirpe, per rappresentanza o per sciagura: si pensi al quinto episodio, dedicato all’“intruso” Michael Fagan; un episodio che cerca di condensare tutti i disagi prodotti nel “fuoricampo” dalle decisioni politiche prese all’interno dei palazzi di Downing Street. È la finzione come esonero o come bignami del reale.

Di Diego Maradona e di Argentina-Inghilterra 2-1 – in quanto evento storico o in quanto icona mediatica – non c’è traccia in The Crown. Non c’è da stupirsi, né sarebbe stato un bene trovare all’interno di una stagione così concepita una sequenza dedicata ai campionati del mondo del 1986. Eppure, nella messa in serie dei fatti di questo novembre 2020, la realtà della morte del fuoriclasse che interpretò il gioco del calcio in chiave geopolitica e la finzione di questa stagione di The Crown si intrecciano e si sovrappongono.

È in questi casi, allora – di fronte ai brutti film o appuntamenti seriali deludenti – che vale la pena di recuperare l’arma dello zapping: Netflix, TV generalista, radio, riviste web e cartacee, chat di Whatsapp ecc. Non si tratta di “farsi il proprio film”, ma di sperimentare quel percorso critico intermediale che il film o la serie che stavamo guardando intendeva negarci. Mettere a lavoro quella poca immaginazione che abbiamo (altrimenti facevamo i registi) e provare a riconfigurare pezzi eterogenei, gemme e rottami. Cercare di capire che cosa succede, cosa tiene insieme forme discorsive e visuali diverse: la nuova stagione di The Crown e la morte del Dio del calcio, ciò che in modo semplicistico diciamo finzione e quanto di estremamente difficile chiamiamo realtà.

Riferimenti bibliografici
S. Daney, Le salaire du zappeur, POL, Paris 1988.
M. Dinoi, Lo sguardo e l’evento. I media, la memoria, il cinema, Le Lettere, Firenze 2008.
P. Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio, Raffaello Cortina, Milano 2003.
G. Tagliani, Biografie della nazione. Vita, storia, politica nel biopic italiano, Rubbettino, Soveria Mannelli 2019.

The Crown. Ideazione: Peter Morgan; interpreti: Olivia Colman, Tobias Menzies, Helena Bonham Carter, Emma Corrin, Gillian Anderson; produzione: Left Bank Pictures, Sony Pictures Television; origine: UK, USA; anno: 2016 – in produzione.

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