Immagino vi sia capitato di imbattervi in un nuovo, angosciante blockbuster dal titolo Covid-19. Già nel trailer si vedono molte scene notevoli. L’infermiera che crolla di sonno al termine di un turno sfiancante. Il Papa sotto la pioggia, di fronte a una piazza San Pietro vuota. La terribile sequenza delle bare portate via da Bergamo sui camion militari. Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella sull’altare della Patria, da solo, nella ricorrenza del 25 aprile.

La pandemia globale ha rovesciato nel giro di poche settimane l’idea che avevamo del mondo. Si è presentata come una “catastrofe”, che come vuole l’etimo “capovolge” – da katà (giù) strepho (volgere) – ciò che credevamo di poterci aspettare dalla realtà. Non che non fosse prevedibile. Molti scienziati lo andavano ripetendo da tempo: simili epidemie sono (e saranno) la cifra dell’Antropocene. Il fatto che fosse prevedibile però non cambia più di tanto l’esperienza che ne facciamo. Siamo di fronte a qualcosa di nuovo, inafferrabile e destabilizzante. Se proviamo a comprenderlo coi soli strumenti della razionalità, rischiamo di fallire: un evento simile è qualcosa che abbiamo sperimentato soltanto nei racconti di finzione. Ecco perché, da quando la pandemia è iniziata, continuiamo a ripeterci che “sembra di stare in un film”. Ed ecco perché a ogni immagine sensazionale che i media offrono al nostro sguardo ci sembra di poter afferrare, visualizzandola, l’enormità dell’oggi.

Le immagini trattengono nella certificata eternità del loro essere state tutta la fragilità del presente. Tutta l’emozione (il terrore, la solitudine, la paura) che l’attualità ci impone e che l’immagine mette in scena con un guizzo, fuori dalla ragione discorsiva, nel territorio permeabile dell’immaginazione. Covid-19 non entra nel nostro cervello attraverso la conta insulsa dei morti ripetuta come una litania giorno dopo giorno. Covid-19 si fa strada in noi spettatori con la velocità del suo montaggio, portandoci di volta in volta ai quattro angoli del mondo, per mostrarci le strade vuote, i corpi ammassati, il personale sanitario schierato. E intanto intesse a partire dalle sue immagini una proto-narrazione basilare: l’attesa del picco, la speranza di una cura, il rischio di nuovi focolai. Guardiamo alla realtà come se fosse un film perché non sappiamo come altro gestirla.

I media e i social network ci aiutano in questo processo, rendono Covid-19 l’epica memorabile del nostro tempo. Spopola la metafora bellica, che ben si presta a giustificare lo stato d’eccezione in cui improvvisamente ci ritroviamo. È un turbinio di emozioni velocissime. I medici sono eroi “in prima linea”, e forse per questo non stiamo a chiederci se abbiano ricevuto i dispositivi di protezione e le tutele necessarie: i soldati sono forse tutelati quando scendono sul campo di battaglia? I runner sono gli untori, i nuovi nemici della società, che le forze dell’ordine e i sindaci vanno a stanare uno ad uno, in scene di chiara ispirazione orwelliana. Perfino noialtri, comuni mortali, scopriamo la soddisfazione dell’eroismo nel semplice restare a casa.

Come in tutti i film, il tempo scorre verso un possibile finale, così da trasformare la quarantena da stasi immobile ad attesa cairologica. Aspettiamo che arrivi la catarsi. La fase 2, la fase 3, il vaccino. L’importante è che il nostro tempo sospeso sia orientato verso una risoluzione. Ma se la realtà sembra un film, cosa resta dei film?

Finzioni. Secondo una nutrita schiera di sociologi e studiosi della cultura, eredi della teoria critica e non, il mondo prima dell’uscita di Covid-19 sembrava inarrestabile. E questo nonostante fosse costantemente sull’orlo del baratro. La società tardo-moderna viveva in una perenne fuga in avanti, un’accelerazione sclerotica spacciata per il disegno di qualche mano invisibile (Rosa 2010). Rischi mostruosi, come il disastro ecologico, erano costantemente all’orizzonte, ma più la società si lanciava in avanti, più l’orizzonte veniva messo in fuga. L’apocalisse, da imminente, si faceva immanente. La possibilità stessa della fine, nel farsi concreta, si sospendeva. Del resto non poteva esserci una tappa ulteriore nello sviluppo della società umana perché stavamo già vivendo la “fine della storia”.

Le società liberali raccontavano di un mondo addomesticato e ormai sotto il pieno controllo dell’uomo, in cui i pericoli, le paure, i rischi, che pure esistevano, risultavano gestibili, risolvibili in seno al sistema stesso. Lo spazio era governato dai mezzi di comunicazione, il tempo dall’immediatezza delle tecnologie, la malattia e la morte dalla scienza medica. Addirittura il tecno-liberismo della Silicon Valley aveva trasformato il modello aspirazionale da manager superomistico in giacca e cravatta a buffo nerd in pantaloncini corti e infradito (Sadin 2016). Gli uffici di Google erano colorati e avevano il ping-pong, le grandi aziende permettevano lo smart-working e ti davano perfino un iPhone aziendale! Non era perfetto, ma si proclamava il migliore dei mondi possibili.

Forse proprio per questo la produzione culturale letteraria e audiovisiva si sbizzarriva in scenari distopici, ucronici od orrorifici di ogni tipo. Dai film catastrofisti alle serie televisive post-apocalittiche, passando per i romanzi cli-fi. Più la società ultra-liberista si rassicurava sul funzionamento delle sue strutture socioeconomiche, più gli individui cercavano storie spaventose, mondi rovesciati, contesti mostruosi. Se la realtà si presentava così riconoscibile e user-friendly, per sperimentare un po’ di quel sano terrore che H.P. Lovercraft diceva essere “il sentimento più forte e più antico dell’uomo”, non restava che la finzione.

Certo, leggere un racconto di Lovercraft ci emoziona e ci spaventa, ma non è proprio come assistere al vero risveglio di Chtulu. Guardare il premier britannico intento nelle bizzarre pratiche del pilot di Black Mirror ci disturba, ma non è come vedere la stessa cosa al telegiornale. Nella finzione, fin dall’età evolutiva, sperimentiamo quelle che il filosofo Kendall Walton chiama “quasi emozioni”. Mettiamo in campo la sospensione dell’incredulità, naturalmente, lasciando che la storia ci coinvolga, ci diverta, ci spaventi o ci commuova, ma sempre con la “rassicurazione” che ciò cui stiamo assistendo si consuma in un ambito che non è la realtà. Perciò, prima di Covid-19, la finzione diventava il luogo deputato a provare la quasi emozione della paura, del brivido, del cataclisma. Se il reale ci raccontava che era tutto sotto controllo, la finzione ci suggeriva lo sfacelo.

Tale sfacelo però, e in ciò stava l’implicito piacere che provavamo da spettatori, non era roba dell’altro mondo. Era esattamente ciò che la società tendeva a obliterare, a nascondere, a dissimulare. Era proprio quel rischio, o quella stortura, sul cui orlo il sistema camminava, apparentemente indifferente. L’apocalisse zombie di The Walking Dead, la distopia patriarcale The Handmaid’s Tale o il perturbante scenario del già citato Black Mirror esasperavano in modo esplicito ombre presenti nella realtà. E dunque erano sì disturbanti, ma fungevano anche da esorcismo. Commentando i nuovi esiti della società tecnologica con “sembra una puntata di Black Mirror” stavamo implicitamente dicendo che “sembra, ma non lo è”. Quei prodotti culturali sublimavano le nostre paure, e per questo funzionavano così bene. O, per dirla coi francofortesi, confermavano il sistema nel suo processo di auto-conservazione.

Apocalissi. L’uscita di Covid-19 ha cambiato un po’ di cose. Il sistema socio-economico non è riuscito a continuare nella sua accelerazione e nel suo complesso gioco di camuffamento dei problemi. Le contraddizioni e le storture sono esplose. Se smettiamo di guardare a Covid-19 come se fosse un film ma cominciamo a prenderlo per quello che è, ci accorgiamo che più che di una catastrofe, si tratta di un’apocalisse. L’etimologia dice che l’apocalisse porta con sé una rivelazione (da apo “non” e kalyptein “nascondere”). E in effetti Covid-19 non rovescia il sistema, ma ne smaschera il funzionamento. Amplificando la sofferenza, le disuguaglianze, le contraddizioni del nostro mondo, ce le mostra. Covid-19 estende le possibilità di esperienza del reale spingendole verso quello che prima relegavamo alle opere di finzione. Oggi la realtà mette in scena da sola, senza bisogno del controcanto distopico, i suoi tratti inquietanti.

E allora che ne sarà dei racconti sui mondi alternativi? Perderanno la loro funzione di esorcismo? Diverranno per davvero radicali – e in qualche misura sovversivi o addirittura rivoluzionari? Oppure semplicemente spariranno? Ovviamente l’ipotesi più plausibile è che anche questa, come le altre crisi, passerà lasciando l’impianto complessivo della società, e quindi dei suoi miti, sostanzialmente invariato.

Tuttavia proviamo per gioco a ipotizzare tre scenari di cambiamento.

♦ Il racconto distopico/orrorifico insisterà sistematicamente sulla soglia che lo separa da quello reale. Lavorerà cioè più che sulla categoria dell’horror o del fantastico su quella freudiana del perturbante, ovvero il senso di smarrimento e disagio provato di fronte a qualcosa che dovrebbe essere noto e si rivela invece estraneo (in tedesco Un-heimlich, non – domestico). Se la realtà si sposta verso i film, i film si sposteranno verso la realtà, puntando proprio su questo scarto. In un contesto post-pandemico in cui le donne, stando ai dati sulla disoccupazione, avranno pagato come al solito il prezzo più alto, la prossima ucronia à là Handmaid’s Tale non avrà più bisogno di un apparato simbolico così estremo e lavorerà magari su tratti più sottilmente inquietanti. Oppure ancora, nel mondo post-pandemico che si ritroverà improvvisamente in un rapporto forzatamente più familiare con la morte, ci saranno più Les Revenants e meno World War Z. La realtà, messa a nudo dal virus, ci interesserà più dei tempi in cui si camuffava, e dunque i racconti, anche quelli fantastici, cercheranno un effetto di realtà sempre maggiore.

♦ Il racconto distopico/orrorifico abbandonerà il gioco di somiglianze e differenze con la realtà (dunque la categoria del perturbante), per concentrarsi sul weird, sullo strano, su ciò che non ha nulla di familiare. Se la realtà avrà inseguito la finzione, la finzione si sforzerà di allontanarsi. I racconti di mondi diversi dal nostro diverranno insomma più radicali. Ci sarà più fascinazione per l’ignoto e l’alterità. Più angoscia pura e cieca e meno inquietudine thriller. Più Jeff VanderMeer – quello della Trilogia dell’Area X – e meno Black Mirror, più fantascienza e meno psicologismo. Più Terminus Radioso (un visionario romanzo di Antoine Volodine) e meno Hunger Games. Immersi in un mondo post-pandemico in cui saremo apertamente preda dell’ansia del presente, cercheremo nei racconti di finzione paure molto più archetipiche e primordiali, più lontane possibile dalla realtà. Non gli zombie, per capirci, che ci infettano se ci avviciniamo. Quelli ormai li incontriamo già nella fila del supermercato.

♦ L’ultimo scenario è quello in cui il racconto distopico/orrorifico avrà stancato. Cercheremo nei racconti di altri mondi alternative al nostro sistema, più che l’esasperazione di ciò che già conosciamo. Torneranno di moda le utopie. A esse ci rivolgeremo non più per esorcizzare le paure, ma per ricevere conforto e rassicurazione. O forse andremo perfino oltre. Il fantastico disegnerà le coordinate in cui cominciare a pensare un mondo con valori diversi. E noi spettatori, fiaccati dal reale, ci scopriremo improvvisamente ricettivi. Presteremo un orecchio più attento alla cara vecchia politicizzazione dell’arte. Torneranno gli zombie, ma stavolta per aiutarci a costruire una società diversa. The Walking Dead, insomma, ma col socialismo.

Mi sa che la chiudono dopo la prima stagione.

Riferimenti bibliografici
M. Fisher, The Weird and the Eerie. Lo strano e l’inquietante nel mondo contemporaneo, minimum fax, Roma 2018.
F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Utet, Torino 2020.
H. Rosa, Accelerazione e alienazione. Per una teoria critica del tempo nella tarda modernità, Einaudi, Torino 2015.
E. Sadin, La silicolonizzazione del mondo. L’irresistibile espansione del liberismo digitale, Einaudi, Torino 2018.
S. Sontag, Malattia come metafora. Cancro e Aids, Mondadori, Milano 2002.
K. Walton, Mimesi come far finta. Sui fondamenti delle arti rappresentazionali, Mimesis, Milano 2011.

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