Nella seconda stagione di Euphoria a un certo punto viene pronunciata la frase “l’arte dovrebbe essere pericolosa”. A parlare è l’assistente di Lexi nel tentativo di convincere l’amica/regista a continuare con lo spettacolo che sta mettendo in scena, in cui racconta alcune vicende accadute tra i ragazzi della scuola, le quali hanno creato scompigli, risse e litigi. Proprio in questo passaggio autoriflessivo è racchiuso uno dei punti dell’ultimo lavoro di Sam Levinson – a cui Sciame (2023) sembra profondamente accordato – una specie di rivoluzione new new hollywoodiana, “spinta”, matura e diretta. Una serie che parte dal teen e arriva al gangster movie è inevitabilmente una serie che prova a fare in modo che la televisione sia pericolosa, che lo streaming sia violento.

Con il suo ultimo lavoro Donald Glover sembra voler sposare una missione molto simile a quella di Atlanta (2016-2022), dove affrontava l’ambiente mediale contemporaneo con un approccio diretto, violento e di genere. In Sciame Glover lo fa con un racconto uniforme che all’inizio di ogni puntata si dichiara non di finzione, bensì tratto da fatti veri e persone esistenti, ma basta poco per capire che non è così.

La storia è quella di Dre, una giovane americana talmente ossessionata dalla popstar Ni’jah da essere disposta a uccidere chiunque ne parli male; dopo il suicidio della sorella, Dre fugge per l’America, incontrandosi con una serie di alterità, sempre assordata da quello sciame del titolo che è il nome con cui si riconosce il fandom della sua artista del cuore e di cui ovviamente sente di far parte.

Alla domanda su quale sia il suo artista preferito e alla conseguente risposta sbagliata, segue la cieca aggressione di Dre con argomentazioni da post-verità (il numero di ascoltatori, i Grammy vinti), così come da post-verità è anche la deriva da cui Donald Glover parte nel creare un articolato sistema di scambi tra finzione e realtà, continuando a insistere sulla presunta attendibilità documentata della serie. Riproponendo i suoi classici approcci autoriflessivi, come il mockumentary del sesto episodio, Glover emula il medium stesso cercando in definitiva di decostruire l’industria culturale americana e il sistema del presente occidentale.

Ritornando allo spettacolo teatrale di Euphoria, potremmo allora dire che anche Sciame gioca costantemente col dubbio e con la verosimiglianza, con la ferocia e la plausibilità. Parla del presente, ci interpella. Innanzitutto, porta indubbiamente con sé una serie di riferimenti inequivocabili. Uno di questi per esempio è la similitudine tra Ni’jah e Beyoncé, il nome del fandom di quest’ultima è beehive (alveare), molto simile allo swarm (sciame) della serie. Il punto però è un altro. Il termine scelto per dare un nome a questa moltitudine invisibile di cui la protagonista crede di far parte è, forse non così casualmente, lo stesso utilizzato da Byung-Chul Han nel definire le nuove folle digitali.

In una sequenza chiave della serie Dre guarda un alveare prima di compiere uno dei suoi sistematici atti criminali. Il rumore, il ronzio assordante, diventa sintomo dell’azione. Quel microcosmo affollato che si riconosce nell’amore per una popstar e che vive solo negli schermi, questa moltitudine invisibile di cui la protagonista crede di far parte «non è coerente: non si esprime come una sola voce […] per questo è percepita come frastuono» (Han 2015, p. 23). Lo sciame di Glover e quello di Byung-Chul Han sembrano la stessa cosa, «non marciano, si dissolvono come si sono formati» (ivi, p. 25), sono composti da individui isolati che agiscono secondo le logiche dell’auto-sfruttamento e alla moltitudine contrappongono la solitudine.

«L’indignazione digitale non è cantabile: non è capace né di azione né di narrazione […] rappresenta, piuttosto, uno stato affettivo, che non dispiega alcuna forza in grado di produrre azioni» (ivi, p. 19). Eppure Sciame, come sa concedere il suo approccio di genere, materializza la metafora nel senso più letterale possibile e la scia di sangue si concretizza. Dre è il centro nevralgico di una riflessione sugli sciami digitali, è l’homo digitalis che si mostra in forma anonima, pur non essendo mai un nessuno (come funziona invece nel rapporto tra l’uno e i tutti della folla), ma più precisamente un qualcuno anonimo.

È una mina vagante mai rappresentativa di un gruppo intero. Un personaggio che si presenta ogni volta diverso, un’emarginata in fuga da sé e dalla famiglia, alla ricerca di un’aura che può essere la vita vera o un incontro non mediato con la sua cantante del cuore. Quello che sembra concretizzarsi è uno smarrimento che paradossalmente coincide con una fuga, un road trip, il viaggio in un’America off grid, fuori dalla rete, fatta di gruppi di spogliarelliste e comunità di recupero da social. Un allontanamento involontario dalle paludi delle piattaforme, da quella che Lovink definisce «grande stagnazione» (Lovink 2022, p. 67), che viene però contrapposto a un continuo tentativo di immersione, quasi come la rincorsa per un grande tuffo.

Sciame, pur non essendolo, è comunque tratto da una storia vera. Ci interpella continuamente e a noi non resterebbe altro che fare come gli spettatori dello spettacolo teatrale di Euphoria, ossia alzarci e litigare. Ribadire l’autorità e l’autonomia su noi stessi. E invece, malgrado tutto, è più probabile che rimarremo fermi, assordati dallo sciame e impantanati nella palude.

Riferimenti bibliografici
B.C. Han, Nello sciame. Visioni del digitale, Nottetempo, Roma 2015.
G. Lovink, Le paludi della piattaforma. Riprendiamoci internet, Nero, Roma 2022.

Sciame. Ideatori: Donald Glover, Janine Nabers; interpreti: Dominique Fishback, Chloe Bailey, Nirine S. Brown, Damson Idris, Rory Culkin; produzione: Gilga, Naberhood Productions, RBA, Big Indie Pictures, Amazon Studios; distribuzione: Amazon Prime Video; origine: Stati Uniti d’America; anno: 2023 – in produzione. 

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