All’interno dell’attuale orizzonte dell’intrattenimento audiovisivo, profondamente contrassegnato da prodotti seriali che appaiono sempre più spesso sostenersi sulle rassicuranti certezze (commerciali) del cliffhanger, Atlanta, serie televisiva creata e interpretata dal poliedrico Donald Glover, pare esibire evidenti tratti di eccezionalità. Se da un lato l’organizzazione narrativa della serie sembra essere in linea con alcune tendenze tipiche di una certa serialità (per cui «la storia lascia il posto alle storie; l’organicità del racconto alla pluralità diffusa delle esperienze», Di Chio 2011, p. 206), dall’altro colpisce immediatamente come lo scorrere delle puntate di trenta minuti palesi un programmatico rifiuto di ogni sistematica linearità, conferendo alla serie una struttura a mosaico («a whole story, but told in a bunch of little parts», nelle parole di Stephan Glover, fratello di Donald e co-sceneggiatore della serie) in cui ogni frammento (ogni puntata) appare allo stesso tempo provvisto di una propria (episodica) autonomia.
Rifiutando nettamente strategie di fidelizzazione improntate al colpo di scena, Atlanta trova nell’ellissi uno dei propri principi compositivi privilegiati, impiegando una scrittura che tende ad assorbire il portato significante di gesti e azioni in un più generale «andare a zonzo» (Deleuze 1984, p. 238) che informa un corpo seriale dallo spiccato andamento aneddotico. Della cruda realtà afroamericana della Baltimora di The Wire la città di Atlanta immaginata da Glover sembra offrire più che altro il controcanto onirico e qualche esplicita allusione (la presenza di un divano-quartier generale all’aria aperta o la presenza di un attore), facendo sfumare in un’atmosfera tragicomica quelle tematiche di precarietà ed emarginazione sociale (il razzismo, lo spaccio di droghe, la criminalità giovanile, la complessità delle relazioni affettive) che pure si trovano al centro della serie.
Rifiutando ogni approccio manieristicamente realistico, è nell’interstizio straniante generato dalla continua irruzione dell’assurdo (personaggi vagamente mistici, alligatori come animali domestici, macchine invisibili, un Justin Bieber nero o l’intera puntata B.A.N.) all’interno di un più generale piano di verosimiglianza che Atlanta mostra di mettere in atto processi di autenticazione (Montani 2010) volti direttamente a «raccontare la verità e dar voce a chi non ne ha», andando oltre il semplicistico proposito di raccontarci una storia. Al di là dei deboli legami che intrecciano le vicende di Earn, Alfred e Darius, questo «Twin Peaks con i rapper» finisce dunque per assumere i tratti di un racconto di formazione in cui «il parallelo tra un ragazzino del ghetto e Paper Boi non ha colore né età», dove la proliferazione di situazioni surreali è specchio di un mondo in cui a essere sempre più incerti – complice la pervasiva presenza dei social network – sono i confini tra ciò che è e ciò che appare.
È dunque alla luce di simili considerazioni che dovrà essere inteso in tutta la sua pregnanza di significato il flashforward d’apertura della serie, un diverbio in strada che si conclude con un colpo di pistola che innesca processi di significazione immediatamente avvolti da un alone di ambiguità. Di fronte allo sparo di Paper Boi – un’esplosione sonora e luminosa ripresa dall’alto, in campo lungo – che chiude la prolessi narrativa, lo spettatore non può in effetti essere sicuro di aver assistito a un omicidio, incertezza rafforzata dalle prime parole pronunciate da Earn nella sequenza successiva (“Ho fatto un sogno”), dopo la sigla iniziale.
Se quello sparo deve essere identificato con il big bang che dà il titolo alla puntata, la più profonda motivazione di un simile nesso – in linea con una più ampia dinamica di destabilizzazione delle aspettative spettatoriali che caratterizza a fondo Atlanta – sta nel fatto che quell’evento dà origine a un universo spettacolarizzato in cui – mentre la sincerità dei rapporti individuali sembra sempre essere sottomessa agli interessi personali (“Vuoi una fetta della torta di Paper Boi. Nessuno fa il gentile senza un motivo, Earn”) – il complesso delle rappresentazioni mediali finisce per incidere nel profondo sulla stessa percezione che si ha del reale. E così, dopo l’avvio della linea temporale al presente, il cerchio si chiude al termine della puntata tornando al punto di partenza, con le ultime inquadrature che ci mostrano uno schermo televisivo che si assume il compito di fornirci qualche informazione supplementare: Earn e Alfred sono stati arrestati mentre la polizia è ancora alla ricerca di un sospettato ferito e di un’arma. Tanto basta.
L’episodio in questione non sarà oggetto di ulteriori sviluppi diegetici e noi spettatori saremo progressivamente portati, di puntata in puntata, a dimenticarci tanto delle sorti dell’uomo ferito quanto dei possibili risvolti giudiziari della vicenda: nella puntata successiva troviamo i due protagonisti tenuti in custodia in una caserma, ma è di fatto solo un pretesto per trattare tematiche quali la brutalità della polizia, il razzismo, l’omofobia e la malattia mentale, mentre è in maniera del tutto inaspettata che ritroviamo Alfred agli arresti domiciliari all’inizio della seconda stagione. “Una sparatoria, due sospettati: il rapper Paper Boi, e il suo manager Earn Marks”, oltre allo scarno resoconto fornito dal notiziario non serve sapere molto altro, tanto per lo spettatore, quanto soprattutto per la multiforme umanità che abita la città di Atlanta, con la quale i protagonisti finiscono per entrare continuamente in contatto, permettendo così a Glover di articolare uno dei i principali nodi concettuali della serie. Per strada, nei fast food, in discoteca, quasi non c’è puntata della prima stagione in cui personaggi più o meno secondari – tra una stretta di mano a Paper Boi e la richiesta di un selfie da pubblicare immediatamente sui social – non facciano cenno a quel conflitto a fuoco.
Non un’uccisione, ma un atto generatore di una vita nuova, quella di Paper Boi, che si lega da questo momento a un’immagine che potrebbe essere garanzia di successo, facendo di Alfred “uno degli ultimi rapper […] ancora capace di far saltare la testa di un nigga per strada, come negli anni novanta” (1×02). Come dichiarato da Glover, «i neri devono fare una scelta. Quella scelta definisce chi sei», e i protagonisti di Atlanta sembrano proprio rappresentare le istanze di una comunità costantemente impegnata alla ricerca di una stabilità economica che è feticcio di un’agognata legittimazione sociale e identitaria, finalizzata a sovvertire quei lunghi processi storici che hanno finito per produrre «un campo di visibilità attraverso il quale il colore della pelle acquista il ruolo di piastrina di riconoscimento» (Sparti 2010, p. 24). E le radici profonde della questione vengono dunque tematizzate in un momento cardine della serie, la puntata flashback che si conclude con la madre di Earn che tenta di convincerlo a indossare l’abito buono nonostante il caldo, in quanto: “Sei un nero in America… e quando incontri la gente devi avere un bell’aspetto” (2×10).
Tutto il percorso compiuto dai personaggi di Atlanta potrebbe dunque essere letto come rifiuto di quel precetto materno impartito negli anni dell’adolescenza, cercando di non adattarsi a un mondo dominato dalle apparenze (“Voglio restare autentico” dice con fermezza Paper Boi all’amica influencer che lo invita a essere più attivo su Instagram [2×08]) e di affermare un’identità in grado di superare stereotipi razziali che tuttavia appaiono spesso essere troppo consolidati e mai completamente arginabili. E analogo è il tentativo compiuto dagli autori della serie: consegnare i propri nigga a un’immagine svincolata da quelli che sono i più diffusi cliché audiovisivi (“Perché mi fai diventare la donna nera incazzata? […] Sono io lo stereotipo fra i due?” dice a un certo punto Vanessa a Earn, quasi richiamando direttamente, con slancio metanarrativo, il proprio sceneggiatore-attore [1×03]). Una simile aspirazione appare dunque innanzitutto perseguita attraverso la messa a punto di un dispositivo seriale che tende costantemente a trascendere le specificità della vicenda narrata, mettendo in atto processi di astrazione simbolica il cui fine ultimo, ben oltre la leggerezza di certi momenti cadenzati dai beats hip-hop, sembra essere quello di rendere autentica testimonianza della più ampia condizione di marginalità sociale ed esistenziale ancora oggi vissuta dalla comunità afroamericana.
Riferimenti bibliografici
G. Deleuze, L’immagine-movimento, Ubulibri, Milano 1984.
F. Di Chio, L’ illusione difficile. Cinema e serie tv nell’età della disillusione, Bompiani, Milano 2011.
P. Montani, L’immaginazione intermediale. Perlustrare, rifigurare, testimoniare il mondo visibile, Laterza, Roma-Bari 2010.
D. Sparti, L’identità incompiuta. Paradossi dell’improvvisazione musicale, Il Mulino, Bologna 2010.