Euphoria è il manifesto più veritiero della “Generazione Z” in un’epoca in cui la televisione trova negli adolescenti e nei loro drammi esistenziali l’oggetto privilegiato di gran parte delle sue rappresentazioni. Ma da cosa scaturisce questo di più di autenticità che caratterizza la serie? Stando al tema, Euphoria non presenta elementi di grande novità o particolare discrimine e, rielaborando lo smascheramento del lato oscuro dell’adolescenza, contribuisce al consolidamento di una concezione alternativa però già manifesta, secondo cui l’età giovane è in fondo molto meno dorata di come la si ricorda quando, ormai adulti e mossi da un inguaribile istinto nostalgico, ci si crogiola nel desiderio spietato di un ritorno al passato.

Al cuore dell’intreccio si ritrova, dunque, la problematica vita di un gruppo di giovani studenti americani di provincia. Si indagano i loro disagi e le difficoltà legate alla costruzione di un’identità definita, nonché il doloroso approdo alla maturità, che passa attraverso la conquista di una maggiore consapevolezza delle proprie mancanze e il riconoscimento – quindi l’accettazione – dell’imperfezione, dell’errore, della caduta. Di puntata in puntata, emergono segreti e inquietudini dei vari personaggi, tutti similmente “rotti” e “difettosi”, tutti governati da una spiccata tendenza autodistruttiva e vittime di loro stessi, a partire dalla protagonista Rue Bennett (Zendaya), tossicodipendente fiera e aspirante suicida, mina vagante nell’andirivieni ben tracciato e circolare tra casa, scuola e comunità di recupero.

Pertanto, sulla base di un’analisi approssimativa dei contenuti, e dal punto di vista di una categorizzazione semplicistica dell’opera, è assolutamente plausibile associare anche ad Euphoria il tratto generico di teen. Tuttavia, spostando il focus poco oltre, e addentrandosi nelle pieghe di un discorso più strutturato, pian piano si scopre l’imprecisione di tale caratterizzazione, e si rivela inappropriato definire teen un drama che ambisce ad essere altro, a dire altro e che, di conseguenza, forza i confini di una targetizzazione consueta del pubblico di riferimento, li supera e ridisegna. Rispetto a ciò che è venuto prima e a ciò che si è concepito in parallelo – rispetto a tutta quella serialità che, forse anche con il proposito di trovare le “parole giuste”, dei giovani non ha saputo raccontare, al di là di vizi e depravazioni, il vuoto d’amore – Euphoria incarna il senso di una svolta e di una rottura degli schemi necessari all’impostazione di un discorso sulla questione che non sia fine a se stesso, fasullo, e che sia, al contrario, in grado di costruire un dialogo tra due mondi che, se ancora di rado si parlano, non comunicano davvero.

Il lavoro di Levinson si fonda su un’idea progettuale intelligente, pedagogica, e sulla creazione di un’armonia perfetta tra questa e la cornice estetica spettacolare alla quale affida il compito di rendere visibile il nascosto, il perturbante, l’osceno che risiede nella mente offuscata dei personaggi e che chiede di essere visto. L’assenza di filtri linguistici e iconografici non è infatti un capriccio autoriale, un virtuosismo stilistico, bensì un fattore decisivo, funzionale alla restituzione di una realtà che, seppur rappresentata, deve rimanere quanto più possibile invariata, essere non meno reale di come si presenta o si presenterebbe ai nostri occhi, nel quotidiano. Allora, Euphoria non è semplicemente un’attestazione delle dipendenze giovanili (da droghe, sesso, affetti malati), la prova della vita scabrosa che spesso si cela dietro la patina della normalità, la testimonianza di una sofferenza inspiegata e incompresa.

L’identificazione degli adolescenti nelle storie dei protagonisti e l’adesione alla loro causa si fanno assolute non in virtù del dato anagrafico, né per la somiglianza riscontrabile tra le proprie private vicissitudini e quelle cui assistono guardando attraverso lo schermo-specchio. L’affezione deriva, infatti, dalla possibilità di trovare, nell’universo seriale messo in piedi qui e non altrove – una voce “amica” obiettiva e impavida, capace di farsi carico dei bisogni inespressi e delle paure mute che non sanno esprimere: delle richieste d’ascolto, ancor prima che d’aiuto, silenziosamente sepolte per il timore del rimprovero e per il presentimento del giudizio, per la terribile eventualità che non vi sia, dall’altra parte, un orecchio pronto ad accoglierle.

Gli avvenimenti sono narrati dalla voce di Rue, con piglio da “maestrina” o in un fuori campo dai toni sommessi. Mentre il suo sguardo “deviato” si sovrappone all’occhio della macchina da presa penetrando le ferite di chi la circonda e il deserto emotivo che la abita, la diciassettenne racconta del viaggio di ognuno verso il “mostruoso”. Al flusso di immagini iperboliche e allucinogene, volte a riprodurre, anche tramite l’uso smodato di una colonna sonora battente e invasiva, l’intensità dell’euforia nefasta da sostanze e/o l’effetto debilitante della depressione che ne consegue, si accompagna sempre un resoconto verbale accurato che spiega le motivazioni della pulsione mortifera dei personaggi e “spoilera”, senza riserve, pensieri aberranti e impudichi. Euphoria ha dell’eccessivo laddove, per illustrare la violenza del trauma, “traumatizza” violentemente lo spettatore.

In entrambe le stagioni, espedienti tecnici e principi narrativi operano un bombardamento visivo e acustico allo scopo di destabilizzare e generare un transfert di angoscia, paranoia e dolore. Le inquadrature irregolari, i primi piani claustrofobici, i ralenti e la perdita di fuoco, l’assenza di profondità di campo e gli zoom in avanti e all’indietro; e ancora, le panoramiche a schiaffo, gli scatti nervosi e le giravolte di macchina che si uniscono in un montaggio folle e disorganico, la musica dai toni febbrili, le danze pazze dei corpi-zombie sulle pareti inclinate, i giochi di luce e buio: questo, insieme alle parole più dure e a un mix di confessioni indigeste, è il materiale di cui Levinson si serve per perseguire un obiettivo nobile.

La denuncia del disagio e la riabilitazione di uno sguardo critico dal potenziale risolutivo giustificano il turbamento e il fastidio provocati da una visione siffatta. Non è facile accettare un elogio mainstream del suicidio come antidoto ad ogni forma di malessere. Non è forse morale che in tv, benché ci si avvalga dell’attenuante “fiction”, passino messaggi chiari e inequivocabili del tipo “la droga è una figata”. Eppure, la presa di coscienza della portata di un problema non può avvenire se non attraverso un esame meticoloso di quel problema. L’uscita dal tunnel di una qualsiasi dipendenza deve fondarsi sulla conoscenza effettiva dei suoi esiti, sull’ammissione del potere anche seduttivo di alcuni di essi.

Ciascun personaggio è scisso tra un viscerale attaccamento alla vita, ai limiti dell’ingordigia (ricerca l’eccesso e anela al brivido) e la negazione ostinata della stessa (contrassegnata da sentimenti di disinteresse e sfiducia totali nei riguardi di un mondo inumano che lo ha già deluso). Nella realtà infernale in cui il vivere diventa qualcosa di simile all’annaspare, il conflitto è dappertutto, fuori e dentro. Tanto spesso, anzi, si gioca proprio nello spazio stretto che collega esterno e interno, e concerne l’incapacità di introiettare quanto accade in modo costruttivo, di calibrare il bello e il brutto con lucidità e di mantenere il controllo su qualunque stato d’animo, in qualsiasi circostanza.

Alla nevrosi formale fanno eco la doppiezza e lo squilibrio distintivi del temperamento dei protagonisti. Rue sembra felice mentre pedala sorridente per le vie desolate di quartiere inseguendo la migliore amica e amante Jules (Hunter Schafer), o quando si esibisce in cucina come la star di un musical; ben presto, si scopre però che la sua serenità è illusoria poiché frutto di un innamoramento insano (minato dalla propensione al rapporto simbiotico) e dell’essere perennemente “in botta”. In maniera analoga, tutti gli altri vivono di up and down repentini e logoranti. Jules è una transgender dall’aria innocente di fatina buona, ma i vestiti colorati e graziosi che indossa confezionano un guscio in frantumi, un “Io” fragile e insicuro che si rifugia in una rete virtuale di relazioni pericolose e che si auto-sperimenta ricorrendo ad incontri al buio occasionali. Maddy (Alexa Demie), la “diva” stronza della scuola, appare piena di sé e invece è succube degli abusi del fidanzato Nate (Jacob Elordi), a sua volta per metà ragazzo “alfa”, per metà indeciso sul proprio orientamento sessuale. E nondimeno Kat (Barbie Ferreira), che vende il suo corpo sul web perché vuole piacere e piacersi, anche se sovrappeso; Cassie (Sidney Sweeney), la bambolina bionda il cui umore dipende da quante attenzioni maschili riesce a ricevere; e Fezco (Angus Cloud), lo spacciatore dal cuore buono, “criminale” per sbaglio.

Le varie linee narrative che tessono le fila della macro-storia sono, dunque, speculari per durezza, ossia per la tensione generata dalla coesistenza, in un’unica sfera intima, di emozioni inconciliabili. E la singola vicenda, nell’arco temporale del singolo episodio, vale sempre come pretesto per affrontare analiticamente una delle tante e attuali problematiche giovanili. In definitiva, tornando al quesito iniziale, Euphoria funziona perché è la messinscena ostentata di un’emergenza sociale che compromette il presente e minaccia il futuro dei nostri figli; perché è la proiezione di un decadimento morale che ci riguarda da vicino, che ci tocca e rende “colpevoli” fin quando da genitori, educatori e mentori non ci facciamo di nuovo presenti, finché non scegliamo di guardare.

Il teatrino metacinematografico messo su da Lexi, la “ragazza da parete” di Euphoria (emarginata eppure capace di una lungimiranza invidiabile), non è, al fondo, che la riproposizione fittizia della situazione reale che Levinson ha creato ad hoc per il suo amico pubblico. Così come i protagonisti in tv, anche noi, dall’altro lato, ci troviamo disarmati di fronte alla versione peggiore, indifesa e indifendibile, di noi stessi. Ma c’è un che di sorprendente ed eversivo, di spirituale e miracoloso, in questo incontro inaspettato. Qualcosa che lascia presagire il ripristino della simmetria (la madre “tigre” di Rue fa da apripista quando, nel finale della prima stagione, ricorda che i figli come lei ne hanno bisogno e che quello è il compito del genitore), che spiana lentamente la strada per la rinascita (nel finale della seconda, Rue si prepara a risalire, ancora una volta, dal fondo), che riabilita al perdono e alla fede, alla poesia.

Euphoria. Ideatore: Sam Levinson; interpreti: Zendaya, Maude Apatow, Angus Cloud, Eric Dane, Alexa Demie, Jacob Elordi, Barbie Ferreira, Nika King, Storm Reid, Hunter Schafer, Algee Smith, Sydney Sweeney, Colman Domingo, Javon Walton, Austin Abrams, Dominic Fike; produzione: The Reasonable Bunch, A24 Television, Little Lamb, DreamCrew; origine: Stati Uniti d’America; anno: 2019 – in produzione.

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