Come portare ad immagine il presente? Come rappresentarlo? Come interrogarlo? Nessun’altra questione è mai stata al cuore del cinema di Nanni Moretti. E nessun altro autore italiano ha saputo rispondere nella forma artisticamente più convincente a tali interrogativi. Anche con Santiago, Italia, forse il più sorprendente dei suoi ultimi film, che dietro un apparente sguardo documentario lascia emergere una visione acuta e originale sul presente. Lo sguardo di Moretti dall’alto sulla città, con cui si apre il film, è il gesto iniziale con cui ci viene detto che quello che vedremo avrà uno sguardo-testimone, quello dell’autore. Ora all’inizio del suo viaggio, che sarà in questo caso anche un viaggio nel tempo.
Lo sguardo da fuori è il gesto di iscrizione della forma romanzesca: distante e partecipe allo stesso tempo. Certo, il romanzesco si fonda sulla familiarizzazione comica dell’oggetto (come pensava Bachtin), e dunque l’intreccio tra i due modi di restituire il presente (commedia e romanzo) è stretto, così come il loro passarsi il testimone, che in Moretti avviene – come ci è capitato di dire altrove (De Gaetano 2015) – quando abbandona la maschera di Michele Apicella e diventa “se stesso”, a partire da Caro diario (1993). Ma in questo film le cose sono più complesse e prendono forma nuova.
Il film parte con una situazione commedica, di integrazione sociale, di vera e propria “festa” (come viene detto), quando i testimoni – artisti, ma non solo – raccontano il periodo Allende, quello dell’Unità Popolare, la grande circolazione di energie, i desideri, una utopia che sembra farsi reale. Questo entusiasmo condiviso e circolante nel sentimento popolare, che il film riconsegna in un’alternanza ritmicamente felice tra interviste ai testimoni e immagini di repertorio, viene infranto e precipita nel dramma: il colpo di stato militare, Pinochet, il bombardamento della residenza governativa da parte dell’aviazione cilena.
Un trauma – non però del tutto inaspettato, per l’isolamento internazionale, il boicottaggio del capitale industriale, la crisi economica che affliggevano il Cile – rompe una sorta di stato edenico, e gli stessi personaggi che avevano raccontato la meraviglia del Cile di Allende ora raccontano la paura, le torture e i morti di Pinochet. Il film entra dunque nel suo secondo momento, quello del dramma. Violenza, paura, morte occupano ora la scena. Tornano gli stessi testimoni a raccontare come le loro vite e il Cile dall’11 settembre del 1973 entrano in una nuova fase. Il narratore rimane fuori scena, sentiamo solo la sua voce fuori campo che pone le domande. Fino al momento in cui, opponendosi ad un militare in galera che rivendica la sua innocenza, Moretti entra in campo affermando la sua “parzialità”, il suo essere “di parte” rispetto agli avvenimenti narrati.
Il precipitare di una democrazia “felice” in un regime dittatoriale è il convertirsi di una commedia in tragedia, con la dispersione del “corpo della comunità” fino a quel momento aggregata: gli scomparsi non si trovano, gli isolati non comunicano, i morti si moltiplicano. Ma a questo secondo atto ne subentra un terzo, quello che fa entrare in gioco un nuovo “personaggio”, l’Italia, tramite la sua ambasciata – e due dei suoi funzionari – a Santiago, pronta ad accogliere chi stava scappando dalle persecuzioni del nuovo regime (artisti, sindacalisti, gente comune, attivisti di Unità Popolare).
Questa fase apre un terzo movimento, dove la riunificazione della comunità ha un tratto più sparpagliato ed erratico, ma anche qui non esente da elementi commedici. La vita dei rifugiati nei quattro piani dell’ambasciata, dove erano accampati alcune centinaia di cileni, ha dei risvolti da commedia: abbiamo l’espulsione dal partito di qualcuno che si è rifiutato di pelare le patate; il transito frequente dei rifugiati tra i diversi piani dell’ambasciata, distinti per genere o stato familiare (uomini/donne, coppie, single), che li mette in una condizione di ilare promiscuità; grandi tavolate ai pasti; coniugi che non si parlano, rendendo necessario l’intervento di mediatori per gestire i figli ecc. Insomma, la vita in comune nel perimetro circoscritto e protetto dell’ambasciata definiva anche situazioni di vita ordinaria dai tratti commedici.
Ma il film va oltre, e la comunità di incontro italiana mette quella dispersa cilena in condizioni di salvarsi e ricominciare. È l’ultimo movimento della terza parte, dal titolo “Viaggio in Italia”. I cileni presenti in ambasciata, ottenuto il visto, vanno in Italia. E qui la “commedia” dell’ambasciata, seguente alla tragedia degli stadi, lascia il passo ad un movimento inedito per Moretti e per il cinema italiano in genere. Il racconto che i cileni fanno dell’Italia, a partire dalla loro esperienza, dalle loro vite ricominciate, assume la forma del racconto epico di un intero popolo. Accoglienza, opportunità date, consapevolezza politica della situazione, sono i contrassegni di una comunità e di un Paese, quelli italiani, che in una data epoca e in un certo contesto hanno saputo essere unitariamente tali.
È come se l’epos, di fatto assente dalla nostra tradizione, potesse emergere solo attraverso le parole degli altri, il racconto dell’altro, distante geograficamente e temporalmente.
Il racconto di una comunità unita in uno spirito solidale e accogliente è anche la narrazione di una “comunità immaginata” (Benedict Anderson) come forse sono tutte le comunità. Ma per essere epico, questo racconto può riguardare solo un avvenimento passato e compiuto – come pensava il Lukács di Teoria del romanzo –, sottratto all’apertura e indefinibilità del presente. E dunque il Cile del colpo di stato, e quanto questo abbia riguardato anche l’Italia. La compiutezza deriva dall’assunzione di un punto di vista esterno, quello dei cileni rispetto al nostro Paese. Come un punto di vista esterno è quello di Moretti sul Cile stesso, sul suo passato, come icasticamente esemplifica l’immagine d’apertura.
Sguardi incrociati (ma non simmetrici) dunque, dove il punto di vista adottato identifica la posizione dell’altro. Ma mentre il racconto della popolazione cilena ha una struttura ternaria (di tipo dialettico), per cui il passaggio per la tragedia della dittatura apre ad una risoluzione commedica più complessa rispetto alla felicità iniziale, il racconto dell’Italia è più compatto e univoco: è quello di un Paese epicamente unito nel riconoscere i valori fondativi – come l’accoglienza – del vivere comune.
Il dover filmare il presente senza riuscirvi (come in Aprile, 1998), per mancanza di una parola “nuova”, che aveva dato vita alla restituzione grottesca di un mondo senza fuori, si trasforma qui nell’intuizione di compiere un passo di lato e trovare il “fuori” nell’“allora”, riconsegnando il racconto di un’epica nazionale sul coraggio dell’accoglienza e sulla forza di riconoscersi come comunità a partire dall’“altro”.
Non è tanto in gioco la comparazione meccanica tra il Cile di allora e l’Italia di ora, quanto la potenza di una composizione che, facendosi mediare da testimonianze e materiali d’archivio, costruisce “immaginativamente” una comunità, la cui verità è in primo luogo poetica (da dove momenti commoventi). Quell’Italia era tale – cioè comunità – perché di fatto immaginata e raccontata dall’altro. Senza l’altro, il “fuori”, nessuna comunità può fiduciosamente riconoscersi, perché il suo identificarsi perde vitalità e processualità e diventa sterile e risentito.
Il piccolo concerto che chiude il film è l’immagine musicale (e dunque dinamica) in cui si converte l’immagine pittorica (statica) d’apertura (lo sguardo dall’alto su Santiago). Quella musica è segno di una nuova nascita del popolo cileno e l’Italia, garantendo tale opportunità e accompagnando tale processo, ha saputo nascere essa stessa alla vita e riconoscersi come comunità.
Santiago, Italia non è nel cinema di Moretti un intermezzo, un diversivo in attesa di riprendere il lavoro della finzione. Perché è un film radicalmente finzionale, con i personaggi che attraversano il tempo, le situazioni che mutano, i sentimenti che si alternano. Santiago, Italia è un film sul presente italiano restituito nell’unico modo possibile: scavando genealogicamente nella storia del Paese e trovando in essa – affidata alla parola dell’“altro” – un luogo di fondazione mitico-epica. È da questo punto di vista “straniante” che possiamo misurare sospettosità, risentimento, ossessione identitaria che soffocano il nostro presente.
Riferimenti bibliografici
R. De Gaetano, Nanni Moretti. Lo smarrimento del presente, Pellegrini, Cosenza 2015.
G. Lukács, Teoria del romanzo, SE, Milano 2015.