Non siamo forse nel tempo, scriveva Michel Foucault nelle ultime pagine di Le parole e le cose (1966), in cui «l’uomo progressivamente perisce a misura che più forte brilla al nostro orizzonte l’essere del linguaggio?» (Foucault 1994, p. 412). Perché questo stesso «uomo non è che un’invenzione recente, una figura che non ha nemmeno due secoli, una semplice piega del nostro sapere, e che sparirà non appena questo avrà trovato una nuova forma» (ivi, p. 13). Foucault intendeva dire che il nostro tempo, e lo diceva quando quello che ora stiamo vivendo era soltanto agli inizi, è un tempo dominato dal linguaggio, ossia dal primato degli scambi simbolici e informativi rispetto a quelli materiali, dalla finanza rispetto alla cosiddetta “economia reale”, dai social rispetto alle interazioni faccia a faccia. Lo sappiamo bene soprattutto ora nel tempo dello smart working e del distanziamento sociale, il lavoro è sempre meno corpo e sempre più rappresentazione, comunicazione, distanza. Lo sappiamo ancora meglio nel tempo dell’epidemia, in cui il fatto del virus, qualunque cosa sia il virus, è sommerso dalla massa ingovernabile delle interpretazioni di quel fatto, al punto che non si riesce più a capire quale sia, al fondo, il fatto in questione.
Questo voleva dire Foucault, che il dispositivo del linguaggio in questo senso allargato, ossia il dispositivo che funziona simbolicamente e non materialmente, non ha più bisogno degli esseri umani per andare avanti. Per questo “l’uomo”, cioè il soggetto umano, diventa sempre meno rilevante. Ma come vive, l’”uomo”, questa situazione? Come si può assistere alla propria stessa scomparsa? È in questo quadro globale che diventano comprensibili movimenti come quello del post-umano oppure quello della “decrescita”: in entrambi i casi si prova a fare i conti con un mondo sempre meno accogliente per il soggetto umano, per un verso immaginando un umano diverso e alternativo rispetto a quello reso obsoleto dallo sviluppo tecno-capitalistico, per l’altro capace di vivere in modo non distruttivo rispetto all’ambiente (non bisogna dimenticare che l’Homo œconomicus è un’invenzione di quello stesso capitalismo finanziario che non sa che farsene della vita reale degli esseri umani).
È su questo sfondo che si inserisce l’ultimo libro di Massimo Recalcati, che, appoggiandosi sul pensiero di un filosofo ultimamente poco letto, Jean-Paul Sartre, prova invece a delineare i contorni di un umanesimo adeguato ai tempi che stiamo vivendo. Tuttavia, quello di Recalcati è un “umanesimo” non presuntuoso né arrogante, e tuttavia rimane un umanesimo, ossia comunque una difesa ma soprattutto un’affermazione della posizione umana: «Ripensare l’irriducibilità della soggettività umana che Sartre ha sempre difeso è ai miei occhi un’operazione quanto mai necessaria» (Recalcati 2021, p. VIII). Ma che cos’è il soggetto per Recalcati? In effetti la stagione antiumanistica non è passata senza lasciare tracce, e infatti per lo psicoanalista il soggetto è ormai irrimediabilmente fragile e vulnerabile. Non c’è più nulla della superba autoposizione cartesiana del cogito ergo sum. Al contrario Recalcati insiste sul carattere intrinsecamente incompiuto del soggetto, cioè il suo persistente carattere infantile:
Il mio obiettivo è correggere la versione stereotipata del soggetto sartriano come pura trascendenza della libertà, mostrando che il movimento più profondo del suo pensiero implica una concezione della soggettività come ripresa, assunzione retroattiva, soggettivazione di quello che Sartre definisce il carattere “insuperabile” e “inassimilabile” dell’infanzia. Il soggetto non è Sovrano, non è Sostanza, non è un Ego, poiché, semplicemente, nessun soggetto può essere senza infanzia (ivi, pp. X-XI).
L’infanzia è il tempo dell’assenza di linguaggio e della completa dipendenza del piccolo umano dalle cure, ma anche ovviamente dalla eventuale inappropriatezza di queste cure, degli adulti. È quindi un tempo consegnato all’attenzione e alla sollecitudine degli altri; è quindi un tempo esposto. In questo senso un vivente che non smette mai di essere infans è un vivente che non recide mai i legami con la comunità e con l’esposizione originaria all’altro. Non può reciderli, perché altrimenti smetterebbe di essere al mondo come umano. Questa insistenza sull’infanzia si ricollega chiaramente a Lacan e all’incidenza dell’Altro nel processo di formazione della psiche individuale. Tuttavia, e qui Recalcati si allontana almeno in parte da Lacan, questa insistenza mette in luce un altro aspetto, il carattere creativo e “libero” del momento infantile dell’esistenza. L’Altro è necessario, è vero, ma questa dipendenza tuttavia non equivale a un completo assoggettamento. Al contrario, la libertà del soggetto è possibile solo a partire dalla necessità della relazione con l’Altro:
[In Sartre] l’infanzia non viene considerata una semplice tappa dello sviluppo, una fase evolutiva o una sostanza prelinguistica, ma un tempo originario dell’esistenza dove l’evento della soggettività e preceduto dal discorso dell’Altro, anticipato come “oggetto” di questo discorso, costretto in una necessità profonda. Per questo l’infanzia viene descritta da Sartre come “insuperabile”, “inassimilabile”, un’“opaca profondità” che impone al processo di soggettivazione ritorni spiraliformi continui su di essa. Sono i resti indimenticabili, i traumi, le parole dell’Altro, le sue impronte a contrassegnare in modo indelebile ogni processo di soggettivazione. E qui che si gioca il destino del soggetto e la sua libertà di “riuscire a fare qualcosa di ciò che lo si e reso”, come ripete insistentemente Sartre (ivi, pp. IX-X).
Si chiarisce così quale sia l’ambiziosa posta in gioco del libro di Recalcati. Si tratta di tenere insieme due spinte apparentemente contraddittorie: da un lato si tratta di mantenere l’impianto teorico complessivo di Lacan, e quindi partire non dall’autonomia del soggetto bensì dal primato dell’Altro, e quindi dall’originaria assenza di libertà della psiche umana; dall’altro lato, però, Recalcati prova a innestare sulla pessimistica antropologia lacaniana il pensiero di Sartre inteso come pensatore della libertà: «Se nessuno di noi può esistere senza avere un’infanzia è perché nessuno può liberarsi della ripetizione che scaturisce da essa. Piuttosto il problema della soggettivazione consiste nel dare a questa ripetizione la forma singolare di un’invenzione, riprendendo la sua necessità in una contingenza inedita» (ivi, p. XI). Si tratta allora di trasformare la necessità dell’originaria subordinazione all’Altro in un destino che, tuttavia, può essere rivoltato (e qui torna la classica figura lacaniana del nastro di Möbius) nel suo contrario, la contingenza, e quindi nella libertà.
Non si nasce liberi, però lo si può diventare, e proprio a partire dalla iniziale e necessaria mancanza di libertà: «Il soggetto non solo non è una trascendenza senza limiti, ma non è, alla sua origine, nemmeno un soggetto». Sartre lo scrive chiaramente: «Cominciamo con l’essere oggetti» (ivi, p. 68). Appunto, all’inizio non c’è la libertà, e quindi nemmeno il soggetto. Si tratta piuttosto di rovesciare l’originaria condizione di assoggettamento per ribaltarla in una nuova e paradossale forma di libertà «come movimento di ripiegamento del soggetto sulle condizioni del suo assoggettamento» (ivi, p. 105). Si comprende allora il peculiare “umanismo” proposto da Recalcati: il soggetto umano è piuttosto sempre in corso di soggettivazione, quindi mai qualcosa di compiuto e definitivo. Non si smette mai di provare a diventare umani, e quindi non si smette mai di essere infans: si tratta infatti di un «processo che prende corpo nel rimodellamento delle tracce e dei traumatismi primitivi costringendo la soggettività a ritornare presso di essi incessantemente, al pari di un’onda che non smette di battere sullo stesso scoglio» (ivi, p. 4).
Se ora torniamo alla diagnosi impietosa di Foucault, si tratta di capire se la terapia proposta da Recalcati, un Lacan “temperato” attraverso Sartre, riesca a restituire alla soggettività umana un minimo di consistenza. La sfida è immaginare un soggetto sufficientemente forte da opporsi alla potenza anonima di un reale (quello della finanza e dell’economia globalizzata) che non ha alcun bisogno dell’umano, ma anche sufficientemente fragile da non smettere di avere bisogno dell’amore dell’altro; infatti «è solo grazie all’evento contingente dell’incontro amoroso che questo impossibile può trovare una forma di supplenza» (ivi, p. 235). La sfida, cioè, è trovare un punto di equilibrio – per quanto precario e sempre di nuovo da ritrovare – fra esigenza di indipendenza e autonomia (la libertà del soggetto), e relazione con l’altro (la comunità come ineliminabile orizzonte del singolo). In mezzo, appunto, c’è questo “nuovo soggetto”.
È difficile capire se questo spazio esista davvero, se quindi Sartre possa essere ancora un nostro compagno di strada. Se si pensa all’onnipotenza e all’invadenza dei social media, ad esempio, verrebbe da sperare in un’esistenza del tutto isolata, senza Altro né comunità. Ma se pensiamo al disagio di massa provocato dal distanziamento sociale è altrettanto evidente che quando il soggetto è obbligato a rimanere solo con sé stesso cade nell’autismo e nell’angoscia. Il senso del libro di Recalcati ruota intorno a questa sfida, riuscire a stare con gli altri senza averne (troppo) bisogno, riuscire a stare con sé senza dimenticare che una vita senza l’altro, cioè senza politica, è una vita molto dura. Forse impossibile.
Riferimenti bibliografici
M. Foucault, Le parole e le cose, BUR, Milano 1994.
*L’immagine di anteprima dell’articolo è un dettaglio della copertina del libro.
Massimo Recalcati, Ritorno a Jean- Paul Sartre. Esistenza, infanzia e desiderio, Einaudi, Torino 2021.