Nella raccolta poetica Contemplazioni Victor Hugo dichiara, in forma perentoria, che «il sublime è in basso». La frase allude sicuramente all’aspetto sociale: alla nota predilezione per i miserabili e gli emarginati; ma non si può dimenticare la sperimentazione espressiva che il teatro di Hugo aveva imbastito sui confini fra alto e basso, sulla complementarietà fra sublime e grottesco. Il suo teatro ha giocato un ruolo importante nella storia del melodramma, e in particolare nella creatività di Giuseppe Verdi, prima con l’Ernani (da poco proposto all’Opera di Roma), e poi con la più anomala e rivoluzionaria delle opere della trilogia popolare, il Rigoletto (1851) tratto da Il re si diverte (1832). Inoltre, la contestatissima prima dell’Hernani di Hugo a Parigi è stato un momento capitale nella storia del romanticismo europeo, ben rievocato nel film Noi credevamo di Mario Martone.
La chiave del sublime in basso è molto utile per leggere la regia di Martone del Rigoletto di Verdi, andata in scena alla Scala di Milano il 20 giugno (repliche fino al’11 luglio). Molto contestata alla prima da una parte del pubblico, quella che vorrebbe l’opera ingessata in uno sterile rispetto della «volontà d’autore» (concetto da tempo decostruito dalla critica), si tratta di una delle regie più geniali e innovative degli ultimi tempi, che ci conferma Martone come un autore profondamente intermediale, in cui le esperienze teatrali, musicali, cinematografiche e visuali interagiscono profondamente fra di loro; un autore capace anche di una sua inventiva drammaturgica, quasi mitopoetica. La dialettica fra alto e basso innerva tutto lo spettacolo, in tutto il suo dinamismo vertiginoso, come è vertiginosa la musica di Verdi in questo capolavoro diretto ed estremo. Da questo punto di vista la regia del Rigoletto può ricordare la poetica dello spazio che anima l’ultimo film di Martone, Nostalgia, in cui il rapporto fra alto e basso caratterizza la memoria culturale e la dinamica sociale del quartiere napoletano della Sanità.
La bella scenografia disegnata da Margherita Palli presenta all’inizio una villa ipermoderna, dal design elegante, che incastona qualche memoria classica, e fa intravedere un dungeon per le pratiche sadomaso, luogo quindi di performance ludica del potere. Dall’alto di questa struttura trasparente e luminosa il Duca di Mantova esalta il suo stile di vita libertino. A inizio della seconda scena, ambientata a casa di Rigoletto, la struttura si gira e mostra il suo doppio oscuro: il basso, per l’appunto. È una serie labirintica e oscura di bassifondi, posti in comunicazione in alto con la villa, di cui è il serbatoio. Martone situa sull’estremo lato sinistro la protagonista, Gilda, mentre lascia svilupparsi liberamente per gran parte della scena questo universo di emarginazione: vediamo al centro un bagno usato dalle ragazze che si prostituiscono nella villa, un rapper con la classica felpa che muove in modo ritmato, alcuni barboni e altre figure. Sono gli spostati, i devianti, i queer del nostro mondo contemporaneo. La storia di Rigoletto secondo Martone è una storia di conflitti di classe sociale e di genere sessuale.
In questo universo del basso il Duca si cala dall’alto per vivere la storia con l’ingenua e ignara figlia di Rigoletto. La cabaletta finale del classico duetto d’amore fra i due personaggi («Addio, addio, speranza ed anima») viene cantata sfruttando in modo acrobatico la dialettica fra alto e basso, fra scale e tavoli su cui salire, in accordo con il ritmo saltellante della musica. Questo è un punto delicato per l’interpretazione dell’opera; a differenza che nel dramma di Victor Hugo, nell’opera di Verdi il Duca esprime più volte un coinvolgimento sentimentale, con un’esaltazione romantica dell’eros come forza cosmica. Non si può pensare che sia solo una finzione del libertino per ottenere il suo scopo, dato che il Duca canta queste frasi anche da solo a inizio del secondo atto; si potrebbe pensare a una commistione dissonante fra il topos melodrammatico del tenore innamorato e il tema del Don Giovanni; o a una inconscia coesistenza fra desiderio libertino e coinvolgimento sentimentale. Avendo puntato tutta la sua interpretazione sulla componente politica, Martone non può che smontare questo dato sentimentale: il duetto appare dunque come un puro gioco, e anche l’aria da solo sarà cantata in evidente stato di ubriachezza. Spicca per contrasto la monomania assoluta dell’amore di Gilda nell’aria Caro nome, potenziata dalle luci splendide di Pasquale Mari, che le danno una forza caravaggesca.
I primi due atti del Rigoletto di Verdi formano un blocco omogeneo e continuo: è un’unica folle giornata, che si alterna fra i due spazi speculari, con alla fine Monterone, qui trasformato in homeless, che offre lo spunto al protagonista per concepire il suo piano di vendetta. A inizio del terzo atto vediamo la scena in una posizione obliqua, sbilenca, che permette di vedere entrambe le sue componenti, l’alto della villa ricca e il basso dell’emarginazione. Potrebbe sembrare semplicemente una soluzione di sintesi finale, ma è invece la preparazione a un colpo di scena che sorprenderà non poco lo spettatore. L’ultimo atto è quello in cui più è presente quella tinta orchestrale oscura, mahleriana, legata all’ambientazione notturna, e abbinata a esplosioni melodiche di effetto immediato, come l’aria La donna è mobile o il quartetto Bella figlia dell’amore.
Il Rigoletto è infatti una delle punte più radicali di quella frizione fra il tragico e il comico che viene ai Romantici dalla lezione di Shakespeare, e che avrà ne La forza del destino la punta più radicale da parte di Verdi, ferma restando la chiara dominante tragica della sua creatività, evidentissima anche in Rigoletto. Il finale è infatti improntato a un nichilismo totale: manca quella dimensione ultraterrena che addolcisce la morte comune dei due amanti del Trovatore, o la redenzione attraverso la malattia che nobilita la morte della Traviata. Negli ultimi trenta secondi dello spettacolo di Martone, quando Rigoletto piange la morte della figlia e l’insensatezza universale che essa esprime, la scena si muove per un’ultima volta, facendoci tornare alla villa dell’inizio, che vediamo colpita da un attacco della comunità di emarginati, con il Duca al centro ferito a morte, e l’algida facciata ipermoderna tutta macchiata di sangue, come in una performance di Hermann Nitsch.
Qui troviamo dunque quella componente mitopoetica di cui parlavamo all’inizio: senza prevaricare per nulla sulla musica e sulla drammaturgia verdiana, Martone immagina uno sviluppo finale diverso, che colpisce il personaggio negativo, non più destinato a una salvezza anomala, e radicalizza il conflitto di classe e di genere al centro di questa regia, che promana comunque dalla marcata politicità di Hugo e di Verdi. Non credo che questa geniale riscrittura sia da leggere come un riscatto rivoluzionario: Martone cita il film Parasite di Bong-Joon ho (Corea del Sud, 2019) come fonte di ispirazione, che certo non è un film in cui si trova una rigenerazione positiva. Il nichilismo tragico del finale resta intatto, anzi viene ulteriormente potenziato da un altro atto di vendetta.
Siamo lontani dalle soluzioni drastiche di attualizzazione dell’opera che sono state invocate dai detrattori, come la regia di Muscato della Carmen in cui viene eliminato il femminicidio di Don José, con un’incongruenza non facilmente sostenibile nei confronti della musica e del libretto. L’operazione di Martone si muove negli interstizi dell’opera di Verdi, negli spazi di libertà che ogni opera d’arte offre ai suoi interpreti, un po’ come è stato nella sua rilettura dell’Otello, che dava una diversa dimensione problematica all’uccisione di Desdemona. La pregnanza politica del melodramma, la sua capacità di dialogare con la cultura contemporanea, vanno valorizzate, non negate: valorizzate anche e soprattutto attraverso strategie estetiche convincenti e seducenti.
Riferimenti bibliografici
Rigoletto e il suo doppio, Intervista a Michele Gamba e a Mario Martone, Programma di sala, teatro alla Scala di Milano, 2022.
M. Fusillo, Esperienze del limite. Il sublime e la sua ricezione moderna, in S. Halliwell, a cura di, Sul Sublime, Mondadori Fondazione Valla, Milano 2021.
P. Gallarati, Verdi ritrovato. Rigoletto, Il trovatore, La traviata, Il Saggiatore, Milano 2016.
Rigoletto. Regia: Mario Martone; direzione: Michele Gamba; scene: Margherita Palli; musica: Giuseppe Verdi; Maestro del coro: Alberto Malazzi; costumi: Ursula Patzak; luci: Pasquale Mari; coreografia: Daniela Schiavone; interpreti: Piero Pretti, Amartuvshin Enkhbat, Nadine Sierra, Gianluca Buratto, Marina Viotti, Anna Malavasi, Fabrizio Beggi, Costantino Finucci, Francesco Pittari, Andrea Pellegrini, Rosalia Cid, Mara Gaudenzii; durata: 150′.
*La foto in apertura e in copertina è una foto di scena di Marco Brescia & Rudy Amisano.