Nello stato di crisi permanente in cui versa la società contemporanea, dove ogni progetto rischia di essere ottimizzato in funzione di un tirannico regime della prestazione e ogni gesto è svigorito nella sua radicalità singolare per essere valutato in vista di un risultato da raggiungere, la famiglia si profila sempre di più come il polo da cui ripartire per ripensare l’articolazione interna della società. L’urgenza che sconquassa le narrazioni cinematografiche e va assumendo i contorni di una verità insindacabile, di un malessere costitutivo — cellula germinale divenuta ormai patrimonio genetico comune a ogni soggetto — tracima fino a inondare il “reale”. Da qui, il passaggio di testimone tra la Palma d’oro del 2018, Un affare di famiglia, e quella del 2019, Parasite, due film sulla famiglia che rivelano un certo grado di consonanza: quasi un crescendo viscerale, una barocca tempesta d’ira, la frantumazione di confini che si vorrebbero rigidi e che invece sono inerentemente labili e porosi.

Parasite, settimo lungometraggio del regista sudcoreano Bong Joon-ho, è incentrato sulle vicissitudini delle famiglie Kim e Park: una costretta a vivere di espedienti, barcamenandosi nel mondo del lavoro e millantando abilità in realtà appena acquisite attraverso dei tutorial, l’altra avvolta negli agi e nei tormenti della ricchezza. Le scalinate che segnalano i vari strati di Seoul, articolantisi secondo un severo principio plutocratico, separano così quella residenza raffinata — situata nella parte più alta della città, dopo una curva morbida ma decisa che la protegge da sguardi indiscreti — da una qualsiasi catapecchia infestata dagli scarafaggi. Eppure la linea di confine che distingue lo squallido seminterrato dei Kim dall’elegante villa dei Park non è poi così netta. Per quanto socialmente connotato, lo spazio urbano si dipana come un nastro di Möbius, vera e propria superficie non orientabile, topologia escheriana disorientante e per questo aperta agli sconfinamenti e alla sovversione di ogni “piano”.

Un rapido passaparola tra Ki-woo — sventurato erede maschio dei Kim e aspirante studente universitario che da quattro anni non riesce a superare gli spietati test di ammissione — e un amico catapulta il promettente giovane in casa Park, in qualità di insegnante d’inglese della liceale Da-hye. Come nel Teorema (1968) pasoliniano, Ki-woo è un ospite (guesttanto timido quanto risoluto, che si trasforma implacabilmente in anfitrione, in un artefice (host, termine chiave per analizzare l’intera filmografia di Bong) capace di scompaginare le vite dei Park. Al suo arrivo l’unica persona vigile ad accoglierlo è la governante che vive e ricopre quel ruolo all’interno della placida dimora ancor prima della venuta dei Park, fin dai tempi in cui il celebre architetto Namgoong l’aveva costruita per abitarvici.

La signora Park si dimostra una donna la cui gentilezza e l’apparente semplicità di modi — dettati da una fiducia inossidabile nelle raccomandazioni grazie alle quali costruire un “cerchio solidale” che garantisca alla sua famiglia di schivare i mali del mondo, i dardi del caso sono frutto della ricchezza, di un potere economico che assicura a lei e ai suoi cari una vita inodore. La donna si muove in un universo dall’eleganza essenziale, fatto di linee pulite, arredamento minimal chic e accostamenti cromatici neutri in cui a svettare sono all’esterno il verde del lussureggiante giardino che circonda la villa e all’interno i colori accesi sprigionati dal tratto nervoso dei disegni del figlioletto Da-song, l’enfant prodige a cui ogni famiglia stimata fantastica di dare i natali. Da-song è l’increspatura che turba quel bozzolo edenico, l’elemento indomabile che neppure il denaro, da buon “ferro da stiro”, riesce ad appianare, l’indiano d’America che colonizza l’immaginario di una nazione a metà, di un territorio che il padre di Ki-woo (Song Kang-ho) conosce molto bene, ma soltanto, appunto, dal “trentottesimo parallelo in giù”.

Ki-woo conosce il significato «metaforico» insito nelle parole e nelle cose, così come sa che una pietra ornamentale può essere sia un portafortuna sia il contrassegno della sua speranza giovanile che lo porta a fare progetti esistenziali. Il medesimo desiderio di progettualità avvicina Ki-woo all’universo dei Park che, grazie alla loro ricchezza, possono permettersi il lusso di avere un piano per il futuro e di agire in funzione dell’ottenimento di un risultato. Egli è un animo sensibile alla bellezza e perciò è colto da una disperazione ancora più forte, poiché si sente impossibilitato a respirarla e a goderne appieno.

Prendendo in prestito i termini impiegati da Michel de Certeau, si potrebbe affermare che la loro progettualità sta dalla parte della «strategia» istituzionale che mira all’indefinito e alla demarcazione chiara degli spazi, mentre l’esperienza precaria del signor Kim opera sul versante della «tattica» attraverso cui è possibile deformare la nettezza delle linee impersonali e immaginare una forma di vita attagliata alle individualità, alla fattispecie radicalmente irriducibile che logora e irride la maschera imbalsamata del potere e della Legge. Per converso, nel preservare la sua natura animale e da esploratore infaticabile, Da-song è il personaggio più vicino alla famiglia Kim, l’unico, assieme a Ki-woo, a comprendere il codice morse, il linguaggio delle “intermittenze luminose”, segno del tentativo disperato di comunicare mentre si è immersi nella più nera notte dello spirito.

I parassiti non sono allora soltanto i soggetti «dispensabili» (Butler 2017), tali per via della loro subalternità, bensì ogni organismo che dipende da un altro e che, per la medesima ragione, fa irruzione nella sua area o all’interno del suo stesso corpo. La loro mobilitazione rivela altresì il malessere del corpo, così come la seduta di arteterapia con la sorella di Ki-woo ridesta nella signora Park il timore della possibile schizofrenia di Da-song. Il fantasma che quattro anni prima aveva traumatizzato Da-song è un «corpo d’ombra» (Rancière 2016, p. 75) che risale nuovamente le scale del seminterrato di casa Park, unica zona buia dell’abitazione in cui un muro all’apparenza inespugnabile è invece una porta che, una volta varcata, sbriglia l’inconscio collettivo. La festa di compleanno, organizzata in ogni minimo dettaglio, conduce all’impossibile chiusura del cerchio, alla catastrofe preannunciata ogniqualvolta si predispone un piano.

Meglio non averne mai uno, così “nulla può andare storto”, e vivere come gli “insetti” che popolano il cinema imamuriano, affrontando qualsiasi ostacolo si presenti come un falsario — o un artista — capace di plasmare il tempo senza irrigidirlo, riuscendo quindi a trovare una redenzione; così come il flashforward finale può redimere il tempo che un padre e un figlio non potranno forse mai vivere.

Riferimenti bibliografici
J. Butler, L’alleanza dei corpi, Nottetempo, Roma 2017.
M. de Certeau, L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, Roma 2001.
J. Rancière, L’inconscio estetico, Mimesis, Milano 2016.

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