Appena dopo il 1895 la caverna del mito platonico, con le sue sagome proiettate sulla roccia dinanzi allo sguardo irretito di un gruppo di persone, non poteva che diventare per tutti una lungimirante e sorprendente metafora del cinema. Non perché quest’ultimo dovesse necessariamente corrispondere ad una dimensione ingannevole per la mente dell’uomo, ma perché la sua arte fatta di luci e di ombre capaci di riprodurre la realtà si presentava per definizione come l’illusorio spettacolo descritto dal filosofo.
Così, sin dalla loro nascita, le immagini del cinema, se pur in grado di imprimere su pellicola direttamente la realtà in movimento, si collocavano nello statuto ontologico della riproducibilità e dunque, per diretta conseguenza, di (almeno) un primo grado di falsità. A prescindere da quanto potente fosse la mimesi rispetto al reale, a monte di una qualsiasi distinzione tra immagine di finzione e immagine documentale – in quella zona ancora per nulla compromessa da etichette e generi in cui si colloca tutto il cinema delle origini, dai Lumière ai grandi cineasti sovietici – la rappresentazione cinematografica nasceva da un gesto illusorio, capace di copiare la realtà e farla dimenare sulla superficie piatta di un muro.
Alice Rohrwacher e JR lavorano in modo evidente sul rovesciamento di questa “allegoria”, che nel loro cortometraggio diventa “cittadina” – e la città è proprio Parigi, dove il cinema nasce.
In effetti, tornando su quel “muro” platonico sede di proiezione ed illusione, JR da sempre costruisce la sua cifra sullo sfondamento delle superfici bidimensionali degli edifici attraverso le sue gigantesche fotografie. In un certo senso, l’artista decide di non uscire dalla caverna abbandonando il muro bensì di crearsi un varco nel muro stesso che gli permetta di esplorarne le profondità visive, andando in cerca di una verità fotografica che nasca direttamente dentro la quarta parete di volta in volta scelta per la sua performance o, viceversa, la prospettiva visionaria dei suoi scatti nella cornice realistica dell’urbanità.
Questo istinto è alla base del film che realizza in collaborazione con Rohrwacher, sodalizio già vincente in Omelia contadina (2020). Eco, in forma cinematografica, dell’opera-performance intitolata Retour à la caverne realizzata in due atti nell’autunno 2023 sulla facciata dell’Opéra Garnier (una sezione del secondo atto, Chiroptera, torna come sequenza nel film), Allegoria cittadina parte di nuovo dal mito platonico avvalendosi di una narrazione di carattere favolistico vicina alla sensibilità della regista.
Una ballerina (Lyna Khoudry) corre verso un provino per uno spettacolo di danza contemporanea portandosi dietro il figlio febbricitante, Jay, che non sa a chi lasciare. Arrivata a teatro, convince il regista (Leos Carax) a registrarla nonostante il ritardo e il bambino si addormenta tra le giacche delle esaminande per poi scomparire all’improvviso (forse in un sogno?) e ritrovarsi di nuovo, questa volta solo, tra le strade parigine. Lo spettacolo in cui la madre vorrebbe esibirsi si intitola appunto “Ritorno alla caverna” ed è il regista stesso a sussurrare nell’orecchio del piccolo, poco prima che si addormenti, le vicissitudini di quell’uomo che decise di sfuggire all’illusione e cercare la luce fuori dalla caverna, per poi tornare dai compagni stordito dalla realtà esterna e non essere creduto.
Jay diventa dunque apparentemente la miniatura di quell’uomo, fuori dai bui corridoi delle quinte del teatro nella luce accecante di una Parigi dai tetti blu e dai grandi boulevards, i tanti ponti e la frenesia della vita quotidiana di passanti che urlano al telefono, corrono a lavoro, badano solo a loro stessi – va detto, una Parigi di cui si sottolinea l’aspetto della metropoli individualista e volutamente non quello dell’edonismo e dello slancio creativo, entrambi indiscutibili tratti della città. Subito capiamo però che l’uscita dalla caverna in realtà deve ancora avvenire.
Jay si avvicina ad un muro su cui in modo eloquente vediamo scritto “Défense d’afficher” (divieto di attacchinaggio) – titolo di uno dei primi lavori di Meliès (1896) che si credeva perduto ed è stato ritrovato solo vent’anni fa. Il bambino tira un lembo della superficie del muro e questa viene via come carta (eccoci nel terreno di JR) scoprendo poco a poco un’enorme raffigurazione della caverna platonica. Dunque la luce fuori dalla caverna sta lì, nella profondità di quell’immagine, e non al di qua del muro, sul marciapiede dove Jay rimane assorto a guardarla.
E difatti Jay esce a fare esperienza nel mondo fuori dalla caverna entrando nel muro e facendosi egli stesso immagine, una figura in stop motion che, come un graffito di Banksy, si muove tra le pareti di mattoni e cemento e cerca senza successo di catturare l’attenzione di chi al di fuori non si rende conto di quanto sta accadendo. Questo fin quando il bambino torna nella realtà della strada, viene trovato dalla madre e con lei tutti i passanti in precedenza noncuranti vengono invitati a guardare insieme a lui l’enorme caverna comparsa sulla “parete Meliès”. Vale a dire, Jay convince il popolo a fermarsi davanti allo schermo cinematografico e rimanere irretiti non, in questo caso, dalla sua illusorietà, quanto dalla nuova realtà che esso dischiude.
In definitiva, quello che Rohrwacher e JR sembrano volerci dire è che il binomio realtà-illusione può facilmente essere invertito se pensiamo il nostro mondo come un insieme di regole inerziali, corpi mutanti ormai incapaci di avvertire la propria presenza vitale e i propri desideri – proprio questo del resto Elsa Morante, autrice cara alla regista, intendeva per realtà – e all’immagine (cinematografica ma non solo) come ad un nuovo spazio dell’altrove, un “fuori” che riabiliti la nostra capacità immaginativa e, quindi, ci faccia aprire di nuovo gli occhi sulle possibilità reali della nostra esperienza.
Allegoria cittadina. Regia: Alice Rohrwacher, JR; sceneggiatura: Alice Rohrwacher, JR; fotografia: Daria D’Antonio; montaggio: Nelly Quettier; scenografia: Santo Krappmann; musica: Thomas Bangalter; coreografia: Damien Jalet; interpreti: Lyna Khoudri, Naïm El Kaldaoui, Leos Carax; produzione: Ad Vitam Films, Social Animals; origine: Francia; durata: 21′.