Il 21 dicembre del 1971 Elsa Morante scrive a Goffredo Fofi una lettera per augurargli buon Natale. Se Fofi stesso testimonia anni più tardi che quella della scrittrice era un’amicizia particolarmente «esigente», che pretendeva cioè nei suoi interlocutori risposte che avvicinassero nel discorso una certa complessità, l’epistola natalizia di Morante conferma il desiderio dell’autrice di spiazzare il suo destinatario nascondendo riflessioni profonde dentro un brevissimo “canto di Natale”, il racconto di quello che lei stessa definisce «un fatto vero (vero almeno fino in parte, e fino a un certo punto)».
La storiella narra di un collegio di preti di cinquant’anni prima – anzi, come scrive, «(esattamente, se non mi sbaglio, 53 o 54 anni fa)» – in cui il 25 dicembre una «decina di ragazzetti» si apprestano a pranzare insieme con le poche cose che, letteralmente, “passa il convento”, scoprendo poi con grande sorpresa che a chiudere il pasto c’è un’enorme zuppa inglese. I bambini vengono tuttavia invitati dal Priore a sacrificare la loro gola facendo un fioretto a Gesù Bambino e rinunciando alla fetta del dolce che gli spetta. Tutti accettano a malincuore tranne uno, Egidio, perché – come lui stesso non ha paura di ammettere – è «cattivo». La storiella scivola dunque in poche pagine nella celebrazione sottesa di un gesto anarchico – tanto più che ad Egidio la torta non piace e la cede ad un cane, svelando che semplicemente il gesto del Priore «gli puzzava». E difatti intenzione di quest’ultimo era quella di approfittare di una bontà imposta per dare in dono la torta alla «grassa Badessa di un convento del circondario», la quale però, poiché ormai la torta è rovinata dal taglio di una sola fetta, rimane a bocca asciutta. Il dolce finisce infine nelle ingorde mani di un gruppo di spazzacamini che ha appena pulito la cenere dai camini del convento.
Cinquant’anni dopo la destinataria immaginaria della lettera (in seguito pubblicata con il titolo di Pranzo di Natale in Piccolo manifesto e altri scritti) è Alice Rohrwacher, che, colpita dall’immaginario suscitato dal racconto, decide di farne un cortometraggio per una serie prodotta da Alfonso Cuarón per Disney+ in cui diversi registi sono chiamati a rappresentare le feste attraverso la loro specifica cifra stilistica. Rohrwacher sceglie di estendere nel tempo la narrazione di Morante, immaginando cosa fosse accaduto prima di quel pranzo di Natale, l’atmosfera della Vigilia e il preludio mattutino della tavola imbandita con quella così attraente “torta rossa” – speculare se vogliamo all’altra celebre torta delle fiabe, quella “in cielo” di Rodari, altrettanto simbolica e succulenta.
Non solo: la regista opera sul racconto originale un primo e radicale capovolgimento traducendo il mondo maschile in femminile e trasformando i “ragazzetti” in “pupille”, piccole orfane ospitate dalle suore e in particolare guidate dall’intransigente Madre Priora (Alba Rohrwacher). Egidio diventa Serafina, una bimba dagli occhi blu e dai capelli scarmigliati esclusa dalle compagne, e a portare la torta in convento è una donna elegante ed eccentrica (Valeria Bruni Tedeschi), che chiede in cambio del suo dono di pregare per l’amato che ha perso la testa per un’altra donna e l’ha abbandonata.
L’anarchia del gesto di Egidio/Serafina diventa così in primo luogo quella di un testo che si presta ad essere contraddetto, lavorato, interpolato. Quello che colpisce nelle pagine di Morante è il continuo utilizzo di parentesi che approfondiscono o, al contrario, mettono in discussione le frasi appena composte. Qualche esempio oltre a quelle già citate: «Nel periodo delle feste (credo proprio che fossero le feste natalizie)», «una magnifica torta (zuppa inglese)», «il caso vuole che passi di là uno spazzacamino (al posto dello spazzacamino forse c’era il garzone del lattaio – o altro sotto-proletario minorenne)». È in quel forse, che la stessa Morante lascia in dono affinché il racconto si presti ad un immaginario potenzialmente infinito, che si palesa il marchio di una cineasta che da sempre lavora sui potenziali scarti della fantasia a partire da fatti reali. Costruire mondi bucolici, ludici, fiabeschi intrecciandone le maglie con spunti di vita vera è ciò che riesce meglio a Rohrwacher, in grado più di altri di raccogliere l’invito all’anarchia di Morante – «un film maldestramente ispirato», leggiamo all’inizio – nei contenuti e nella forma della narrazione.
Ecco allora che lo stretto ma fecondo spazio letterario gestito da Morante si allarga in nuove parentesi, quelle che la regista incarna in lunghe sequenze di una potente grazia visiva e al contempo tagliate da un’ironia che denuncia l’ambiguità etica e talvolta la dimensione grottesca dell’ambiente raccontato – anche in piccole aggiunte al testo, come l’aggettivo “autarchiche” alle fettuccine presenti nel menù natalizio. Tra tutte, la scena in cui le pupille vengono messe in riga ad ascoltare il comunicato radiofonico sulla guerra che imperversa in Europa (aspetto non esplicitato da Morante, che si limita ad indicare un periodo storico), quando per sbaglio Serafina cambia la frequenza dell’apparecchio e riempie la stanza delle note di Baciami piccina, che prontamente le bambine cominciano a cantare e a ballare prima di essere interrotte dalla suora che pulisce loro le lingue con il sapone per lavarle dal peccato di parole sconvenienti. O quella in cui le bambine vengono vestite da angioletti e appese sopra il presepe vivente, immobili ma solo fintamente remissive, mentre giocano a sbattere le palpebre spaventando gli avventori e muovendo liberamente le “pupille” qui e là (come già nella scena iniziale) ascrivendo al loro girovagare un primo gesto di libertà.
D’altronde Rohrwacher, più di Morante, insiste nel descrivere l’etica religiosa come un’etica che condanna l’agire spontaneo dei corpi e delle emozioni. Serafina è cattiva non perché abbia concretamente ballato le note di Baciami piccina, ma perché “involontariamente” le sono rimaste in mente le parole e continua a canticchiarsele nel sonno. È in altre parole colpevole di abbandonarsi in modo spontaneo all’istinto, che porta invece nel finale le pupille a leccarsi felicemente dalle mani la fetta di torta che la bambina ha conservato per loro. Questa stessa libertà istintiva è quella che rende ogni lavoro di Rohrwacher prezioso: dai titoli di testa in cui – à la Guitry – fa recitare e disegnare alle sue protagoniste i nomi di chi collabora al film, passando per le accelerazioni in stile slapstick comedy dei movimenti delle suore su e giù per i corridoi, i portici e le navate, arrivando ad allegorie visive giocate spesso in questo caso sul lato comico – la suora giovane che, poiché il detto vuole che le suore abbiano i baffi, si disegna sul mento ogni mattina la peluria.
O ancora, dichiarazione di intenti fin dall’inizio, la scelta di far cantare alcuni dei passaggi della lettera di Morante alle pupille (alcune piccolissime) accettandone errori e tentennamenti e liberando nella parola cantata le dilatazioni emozionali del testo. Tra le sue parentesi, nell’anarchica sfrontatezza delle sue immagini.
Riferimenti bibliografici
E. Morante, Pranzo di Natale. Con una nota di Goffredo Fofi, Edizioni Henry Beyle, Milano 2014.
Le pupille. Regia: Alice Rohrwacher; soggetto: Alfonso Cuarón; sceneggiatura: Alice Rohrwacher; montaggio: Carlotta Cristiani; fotografia: Helene Louvart; musiche: Cleaning Women; interpreti: Alba Rohrwacher, Valeria Bruni Tedeschi, Melissa Falasconi, Carmen Pommella, Greta Zuccheri Montanari, Luciano Vergaro, Tatiana Lepore; produzione: tempesta, Disney-Pixar, Esperanto Fimoj; distribuzione: Disney+; paese: Italia; durata: 38′; anno: 2022.