Il senso della vita risiede comunque nel fatto che abbia una fine, che non sia infinita. E dunque risiede nel suo rapporto con la morte. Questo rapporto può prendere la forma della sua prefigurazione continua nel memento mori, o della sua dimenticanza, come quando viviamo come se fossimo eterni (e come per certi versi è giusto fare, come pensava Spinoza). La morte può essere trascesa o in forma “alta”, nella creazione dell’opera che sfida il tempo pretendendo all’eternità, o in forma “bassa”, quando il trascendimento si fa immanente, diviene prassi che si fa istituzione duratura (linguaggio, comunità, stato) o rito. La prassi rituale è decisiva non solo perché popolare e nutrita di segni e di un immaginario diffusi, che permettono di attribuire un senso condiviso alla morte, ma perché si fonda sull’attraversamento reversibile del limen.
Tutto l’insieme dell’imagerie grottesca (e della festa carnevalesca) si fonda sul passaggio continuo del confine tra la vita e la morte, o in maniera più determinata e meno astratta tra i vivi e i morti, sul loro stare-insieme, sul fatto che i morti non lo sono mai del tutto, pur essendolo. E non lo sono non nel senso che ce li ricordiamo, quanto nel fatto che le nostre vite quotidiane sono intessute dello spirito e della prassi di chi ci ha preceduto, e che a comporre tale spirito contribuisce anche il nostro fare, il nostro agire ora. Solo in questo modo i morti passano, e la morte lascia spazio alla vita non una volta per tutte, ma sempre di nuovo, ritualmente. Per questo la “festa dei morti” è in primo luogo la festa dei vivi, di come si rinnova la vita mettendola ritualmente in comunicazione con i morti. Il rito del Mundus patet dei romani (ripreso dal De Martino de La fine del mondo) si fondava proprio sull’apertura del mondo, sulla messa in comunicazione dei vivi e dei morti. E il carattere iniziatico e battesimale di tale rito evidenziava la conversione, in esso inclusa, della morte nella vita.
L’intenso spettacolo di Emma Dante, Pupo di zucchero. La festa dei morti, passato in questi giorni al Teatro Argentina di Roma, rappresenta con forza questo senso simbolico della morte, attraverso i riti che accompagnano l’entrata dei morti nella vita. Come quello del “pupo di zucchero” che un Vecchio prepara nella notte tra l’1 e il 2 novembre. Un dolce dalla forma antropomorfa, ispirato a quello del “Pinto Smalto”, uno dei racconti de Lu cunto de li cunti di Basile, presente nello spettacolo anche nella lingua napoletana del Vecchio. Ma se nel cunto il pupo di zucchero era il marito che Betta cercava, e non trovandolo dava forma a «un bellissimo giovane» con «pasta di mandorle e zucchero, mescolata con acquarosa e profumo» (Basile 1994, p. 538), nello spettacolo il pupo richiama un rito, soprattutto siciliano, dove la figura antropomorfa è quella dei cari defunti che vengono introiettati simbolicamente in un rito patrofagico.
Nel dare forma al pupo di zucchero, il Vecchio lascia la porta aperta permettendo ai morti di entrare: alla “mammina”, alle tre sorelle come “tre ciuri c’addorano ‘e primavera”, allo zio Antonio e zia Rita e così via. Lo spettacolo di Emma Dante è articolato come avvicendamento di quadri e scene, accompagnati da musica, e dove mimica, movimenti a passo di danza, volteggi, corse, compongono ed animano il dialogo ininterrotto tra i vivi e i morti su un fondale perennemente nero. Raccolti, sparpagliati, soli, in coppia o in gruppo, i morti in carne ed ossa popolano la scena e lo spazio rendendo indiscernibile realtà e immaginazione, percezione e sogno.
Fino a quando il Vecchio, nell’ultimo quadro, con in scena dieci sculture di morti create da Cesare Inzerillo, ed appese ad una struttura orizzontale con ai piedi dieci lumicini accessi, si siede e muore. Oramai è pronto a passare nel regno dei morti, che non lo saranno mai del tutto, se i riti che contrassegnano la cultura meridionale (da Napoli alla Sicilia) saranno in grado di continuare ad “aprire il mondo”, garantire il transito e il congedo, e dunque mettere la vita sempre in condizione di ripartire e di rinascere (secondo la più potente delle conversioni carnevalesche di cui ci ha detto Bachtin).
Ma lo spettacolo di Emma Dante ha una forza e una ragione in più oggi. Messo in scena in anni di pandemia prima e di guerra poi, Il pupo di zucchero espone la potenza di una imagerie grottesca che attraverso il superamento del limen tra vivi e morti annienta il fantasma della morte, quello che si insinua nella vita e la plasma, ben mimetizzandosi. Si annienta il fantasma solo includendo in forma rituale la morte nella vita, ribaltandola in un principio di nascita. Invece oggi la morte, costantemente rimossa ed esorcizzata, ritorna inesorabilmente in almeno due forme pericolose, che la rendono strutturale e ben mimetizzata.
La prima è l’illusione di controllarla. Il controllo della morte come controllo capillare della vita, sottoposta ad una infinità di check up che possano allontanare l’imprevisto e l’inatteso. Anche a costo di una moltiplicazione di dispositivi (paranoici) tesi a bloccare ogni linea di vita per poter prevenire la morte (come abbiamo visto durante la pandemia).
La seconda è una paura talmente radicale della morte e della sua imprevedibilità da trasformarsi nel suo anticipo, nella morte assegnata agli altri e a se stessi, prima che la morte casualmente e capricciosamente arrivi. E la guerra è questo: dare la morte agli altri nel tentativo disperato di evitare l’intollerabile, cioè l’arrivo della morte in forma imprevedibile e insensata. Dare un senso alla morte anticipandola e assegnandola agli altri. E con ciò stesso illudendosi di dominarla. Il culto della morte rientra in questo, come nel caso dei nazisti, attraversati strutturalmente da tale culto, come gli anelli con la testa di morto delle SS testimoniano.
Non si è mai riflettuto abbastanza sulla conversione della pandemia in guerra, sulla dissolvenza incrociata della prima nella seconda, che ha portato la paura della morte a transitare dalla natura agli uomini. E non è un caso che gli artefici della guerra – come Putin – siano stati tra i più paranoicamente spaventati dal virus. Le forme di vita contemporanee, incapaci di ritualizzare alcunché ma solo di controllare, illudendosi di espungere la morte se la ritrovano ovunque, nella distopia di un controllo e di una prevenzione pervasivi, e in quelle di una violenza brutale che – governata dagli stati – prende il nome di guerra.
Il Pupo di zucchero mette in scena la morte come parte della vita, il ciò che è stato come condizione di ciò che è. E con ciò stesso mostra il processo rituale e immaginativo attraverso cui la morte acquista senso, individuando il limen non come definitivo ed assoluto, ma come spazio sospeso di conversione, in cui il tempo perde la sua linearità cronologica e definitiva e si fa immaginativamente reversibile. In questo senso, lo spettacolo di Emma Dante, riprendendo una tradizione profonda dell’imagerie carnevalesca e popolare – declinandola tra il gioioso e il nero – contribuisce a ridefinire il senso proprio di una esperienza che riguarda la vita, individuale e collettiva. La ritualizzazione di tale esperienza è la sola forma attraverso cui la morte si può convertire in vita, la fine in nascita, e il tempo si può rigenerare. Per tutto questo, il Pupo di zucchero, pur essendo popolato da morti non è mai cupo, ma caratterizzato da un senso di gioiosa serenità.
Riferimenti bibliografici
M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, Einaudi, Torino 2001.
G. Basile, Lo cunto de li cunti, Adelphi, Milano 1994.
E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi popolari, Einaudi, Torino 2019.
Fotografia di Ivan Nocera.
Pupo di zucchero. La festa dei morti. Regia: Emma Dante; testo: Emma Dante (liberamente ispirato da “Lo cunto dei cunti” di Giambattista Basile; sculture: Cesare Inzerillo; costumi: Emma Dante; luci: Cristian Zucaro; interpreti: Carmine Maringola, Nancy Trabona, Maria Sgro, Federica Greco, Sandro Maria Campagna, Giuseppe Lino, Stephanie Taillandier, Tiebeu Marc-Henry Brissy Ghadout, Martina Caracappa, Valter Sarzi Sartori; produzione: Sud Costa Occidentale in coproduzione con Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Scène National Châteauvallon-Liberté / ExtraPôle Provence-Alpes-Côte d’Azur / Teatro Biondo di Palermo / La Criée Théâtre National de Marseille / Festival d’Avignon / Anthéa Antipolis Théâtre d’Antibes / Carnezzeria; durata: 60′; anno: 2022.