Questa potrebbe essere l’idea registica più semplice che abbia mai avuto
S. Soderbergh

C’è una presenza dietro quell’immagine? O meglio: l’immagine che è davanti ai miei occhi sta facendo appello a una soggettività, a uno sguardo o a un sentimento visibile (al di là del visto)? Le domande più urgenti della nostra cultura visiva (sempre più improntata a logiche algoritmiche) innervano ogni immagine prodotta da Steven Soderbergh sin dal lontano 1989 di Sesso, bugie e videotape. Un cineasta che ostinatamente continua a immergerci nell’iconografia dei generi hollywoodiani cercando sempre nuove sintassi audiovisive per i discorsi più urgenti del nostro presente (in primis lo sfumato confine tra realtà, autorappresentazione e dispositivi di controllo). Del resto, la carriera di Soderbergh è stata sin dagli esordi caratterizzata dalla lucida strategia dell’alternanza tra grosse produzioni hollywoodiane che esaltano lo star system, indiewood films a medio budget che sperimentano nuovi linguaggi e piccoli film a bassissimo budget che estendono i confini del cinema novecentesco assorbendo sempre nuovi supporti e/o modalità distributive (a tal proposito si vedano le recensioni di The Laundromat e Let Them All Talk). Una strategia straordinariamente perseguita anche negli ultimi due film usciti a pochi mesi di distanza: Black Bag (cinquanta milioni di budget e cast all star) e questo Presence (autoprodotto con due milioni di dollari e girato con troupe ridottissima in soli undici giorni).

Andiamo con ordine. Presence è una ghost story classica interamente ambientata in una grande casa residenziale infestata da fantasmi (anche se nel film non si usa questo termine) e abitata da una facoltosa famiglia che la acquista a inizio film. Conosciamo la figlia minore alle prese con l’elaborazione del lutto della sua migliore amica; poi, il figlio maggiore campione di nuoto, apparentemente freddo e insensibile; infine, i due genitori che ribaltano gli stereotipi di genere nel genere horror (amorevole e disinteressato alla carriera lui, molto pragmatica e ambiziosa lei). Qual è il discorso filmico che ribalta ulteriormente le attese spettatoriali? Il punto di vista sul mondo è quello della presenza. Quindi, l’istanza narrante diventa la soggettiva del fantasma: il film è composto da lunghi piani sequenza che sfruttano l’estrema mobilità del piccolo dispositivo utilizzato da Soderbergh (una fotocamera Sony A7 con stabilizzatore e lenti grandangolari anamorfiche) simulando l’incorporeità fluttuante. Lo spunto da horror gotico, quindi, agisce innanzitutto come meta-riflessione sulla messa in scena cinematografica: a tal proposito, non possiamo non ricordare che Soderbergh è anche operatore e direttore della fotografia (con lo pseudonimo di Peter Andrews), nonché montatore (con lo pseudonimo di Mary Ann Bernard) della maggior parte dei suoi film. In tal modo, il punto di vista del fantasma diventa una palese autoriflessione sui limiti della regia cinematografica, sul voyerismo insito in ogni scelta registica, quindi sui limiti etici dell’intervento diretto sugli eventi filmati. I motivi classici della ghost story scivolano con stupefacente naturalezza nella riflessione modernista sulle forme filmiche estese a ogni esperienza di flusso degli attuali micro-dispositivi di visione.

Ed eccoci alla seconda trovata “semplice” ed efficacissima di questo film. Le forti emozioni della presenza fanno vibrare l’inquadratura all’insaputa dei personaggi divenendo indice di uno stile; quindi, soggettiva-libera-indiretta di un personaggio che diventa intercessore di ogni istanza autoriale. I piani sequenza di diversa durata sono intervallati da lunghi fotogrammi in nero che narrativamente presuppongono la volontà di interrompere l’atto del guardare: una precisa scelta estetica (dentro e fuori il film) tesa a creare scarti nel flusso ininterrotto di immagini. Le evidenti ellissi diventano necessarie interruzioni, ossia pieghe visibili del nostro sguardo tese a riconfigurare l’irrappresentabile (il dolore, il senso di colpa, il trauma, i percorsi di rammemorazione). Insomma, perché la presenza distoglie costantemente lo sguardo? Perché non interviene mai sui fenomeni, se non in precisi momenti di forte alterazione emotiva? E soprattutto: chi è questa presenza? La sorpresa finale (che ovviamente non sveliamo) ci farà dubitare persino del tempo lineare della nostra esperienza di visione.

Da questo punto di vista è straordinario il lavoro di David Koepp, alla sua terza collaborazione con Soderbergh dopo Kimi e Black Bag. Esattamente come nei due film precedenti, lo sceneggiatore disegna solide back story radicate nella storia del cinema che dispiegano il loro potenziale narrativo anche nella radicale destrutturazione visiva operata dal regista. In questi personaggi si avvertono chiari gli echi di temi soderbeghiani come le derive del capitalismo finanziario, il cyberbullismo, gli effetti collaterali della chimica. “Tutto sta andando in pezzi”, si ripete più volte, alludendo al tessuto connettivo dell’America nel XXI secolo: nel fuori campo di questo film si agita il miglior cinema americano dell’ultimo decennio.

Fermiamoci qui. Presence è un atto d’amore per il cinema anacronistico e per questo magnificamente contemporaneo. Un film che crea istantanei e inattesi link con il recente Here di Robert Zemeckis (come molti critici hanno giustamente osservato) ponendosi come il controcampo teorico/sentimentale di quel film. Se in Here assistiamo a un’unica inquadratura fissa, in Presence inseguiamo un punto di vista fluttuante e nostalgico di ogni “materia”. Passando dalla oggettiva-soggettivata di Zemeckis in uno spazio che diventa intercessore, alla soggettiva-oggettivata di Soderbergh in un tempo che diventa attraversabile. Un fiammeggiante dialogo a distanza tra due dei film più sintomatici per il nostro rapporto con la tecnologia, i confini etici dell’atto del filmare e la commovente persistenza del desiderio di risoggettivare le immagini in epoca di prepotente programmazione algoritmica delle stesse. Insomma, Presence è forse l’apice dell’autoriflessività soderberghiana perché sfida la complessità del nostro panorama mediale con una “semplice idea registica” che ridefinisce e rifunzionalizza l’atemporale quaestio baziniana: che cos’è il cinema (nel XXI secolo)?

Presence. Regia: Steven Soderbergh; sceneggiatura: David Koepp; fotografia: Steven Soderbergh; montaggio: Steven Soderbergh; interpreti: Lucy Liu, Julia Fox, Chris Sullivan, Callina Liang, Lucas Papaelias, West Mulholland, Eddy Maday; produzione: Sugar23, Extension 765, Neon; distribuzione: Lucky Red; origine: Stati Uniti d’America; dura: 85′; anno: 2024.

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