Nel 1989 Richard McGuire pubblica una breve storia a fumetti, intitolata Here, sulla rivista “Raw” diretta da Art Spiegelman. In appena sei tavole in bianco e nero, per un totale di trentasei vignette, McGuire ambisce a raccontare la storia dell’umanità vissuta in un unico spazio domestico e rappresentata da un punto di vista che rimane invariato in tutte le vignette, costruite con una semplice struttura assonometrica in cui l’asse delle z coincide con l’angolo della stanza; su uno dei due muri si apre una finestra ma ne vediamo solo una parte.

In questa versione di Here, McGuire sperimenta già la tecnica della reinquadratura per far coesistere temporalità differenti nello stesso spazio, per cui all’interno di una vignetta ambientata nel 1922 vediamo una vignetta più piccola in cui nella stanza compare un personaggio del 1957 (in alcune vignette coesistono fino a quattro linee temporali). La grande libertà compositiva esibita da Here fa dire a più di un commentatore che l’opera di McGuire è un esempio perfetto di arte nell’era di Windows (lanciato da Microsoft nel 1985), il sistema operativo con l’interfaccia “a finestre”; mentre Lucy Sante, sul “New York Times” afferma che McGuire «ha introdotto la terza dimensione sulla superficie piana della pagina».

Considerata la fortuna critica accordata nel corso degli anni alla versione pubblicata su rivista, a partire dal 2009 McGuire lavora a un’espansione imponente di Here, che esce nel 2014 in un volume di oltre trecento pagine a colori, molto differente nell’impostazione grafica ma non nel concept. Il punto di vista è sempre unico e le vicende si stratificano nella stessa vignetta, sempre tagliata a metà dall’angolo della stanza, ma l’inquadratura è più ampia e costruita secondo le regole della prospettiva e la finestra che si apre su uno dei due muri visibili è ora raffigurata per intero. Mentre prima avevamo sei vignette per pagina, ora abbiamo una vignetta su due pagine, una splash page che fa letteralmente entrare il lettore nella stanza raffigurata.

L’arco temporale descritto dal volume va da tre miliardi di anni fa fino a un lontanissimo futuro, ma la maggior parte della storia è compresa tra il XX e il XXI secolo, all’interno di una casa edificata nel 1907. Un’altra differenza tra le due versioni risiede proprio nello spazio domestico, che nella short story appartiene a una casa qualsiasi, mentre nel graphic novel è la restituzione di un ambiente della casa della famiglia McGuire. Proprio nel salotto dei McGuire, il padre dell’autore era solito scattare una foto di famiglia, sempre nello stesso punto, anno dopo anno per circa trentacinque anni (tre di queste immagini sono state recentemente pubblicate sul “New Yorker”): questa è stata, secondo l’autore, una fonte di ispirazione del suo lavoro.

Non sorprende davvero che il capolavoro di McGuire sia diventato un oggetto di interesse per Robert Zemeckis, regista che tanto alla spazialità del luogo domestico quanto alla temporalità del vissuto ha dedicato buona parte della sua produzione, se pensiamo a film come Forrest Gump, Cast Away, Ritorno al futuro. Il film è un adattamento che intrattiene con l’opera di partenza un rapporto molto stimolante e sfidante: l’adesione all’idea formale di McGuire comporta una serie di scelte strutturali che andiamo ora a prendere in considerazione.

Anzitutto il punto macchina unico, che deve sostenere l’intero film: la camera (una Red Raptor con ottica 35mm) è posizionata su un lato del salone, ad inquadrare integralmente l’ampio bow-window che si apre sulla parete di fondo; il punto macchina così selezionato è investito di una tale importanza che la camera non è collocata su un treppiede ma il suo supporto è imbullonato a terra, come a fissarla per sempre a un “qui”.

Altre scelte fondamentali consistono nell’ulteriore rinuncia a movimenti di panoramica (con un’eccezione significativa nel finale) e nella ricerca dell’assoluta profondità di fuoco; quello che vediamo è dunque un’inquadratura “master” (un totale) che non può essere mai modificata, e all’interno di questa inquadratura si svolgeranno tutte le azioni dei personaggi, tutti i cambi di scenografia, tutti i cambi di sfondo (il mondo esterno visto dal bow-window).

Zemeckis si adegua anche alla rappresentazione della temporalità non sequenziale, che nel fumetto è risolta in una struttura multi-panel e nel film diventa uno split-screen in cui convivono (non costantemente) passato, presente e futuro; il concetto sviluppato è quello di una «pastasfoglia» del tempo, per usare un’espressione di Hans Magnus Enzensberger, secondo il quale «l’incontro fra diverse stratificazioni storiche non porta quindi al ritorno dell’uguale, bensì a una interazione reciproca dalla quale, puntualmente e da entrambe le parti, scaturisce qualcosa di nuovo» (1998).

Certamente la sfida principale del film consiste nel far entrare il pubblico nel dominio della spazialità non come ambiente (contenitore di azioni concatenate) ma come luogo dell’abitare, uno «spazio felice», per usare la celebre definizione di Gaston Bachelard, in cui si sedimentano sentimenti positivi e negativi, in cui si sperimenta il senso di sicurezza e protezione ma anche il desiderio dell’altrove. Prima di tutto, però, Here deve fondare il proprio “qui” perché, come dice Bachelard, «è indispensabile essere presenti, presenti all’immagine nell’istante dell’immagine» (1975).

Per consentire l’accesso allo spazio domestico che sarà l’unico punto di riferimento per lo spettatore, il film sceglie un lungo avvio in cui i segmenti non sono collegati da nessi causali: ci troviamo di fronte a personaggi differenti di cui non sappiamo nulla, cambiano gli stili di arredamento e le tecnologie ma, mentre cerchiamo di raccogliere informazioni, i personaggi e le scenografie si avvicendano, disorientandoci. Allora non resta che affidarsi allo spazio in sé e all’unico riferimento saldo e immutabile, il punto macchina.

Superato il disorientamento iniziale attraverso l’aggancio alla dimensione rassicurante della località, Here comincia a imbastire alcune linee narrative: la casa viene edificata su un terreno che era appartenuto al figlio di Benjamin Franklin, che vediamo aggirarsi a piedi e in carrozza; i primi abitanti sono una coppia di caratteri opposti, lui tutto proiettato sul futuro e lei sul passato (non a caso è interpretata da Michelle Dockery, la protagonista della serie tv Downton Abbey).

Negli anni quaranta è il turno di una simpatica coppia molto passionale, un inventore e la sua musa, sempre impegnati nei piaceri domestici, lui a bordo di una fenomenale poltrona reclinabile di cui ha il brevetto e lei scatenata nella danza e in qualunque altra manifestazione di prorompente vitalità: siamo chiaramente in un regime di commedia hollywoodiana classica.

Nel 1945 arriva la famiglia Young, di cui seguiremo più diffusamente le vicende: lui è un reduce, lei una casalinga, uno dei loro figli (Richard) ha il pallino della grafica ma dovrà rinunciare all’arte per entrare nel mondo del lavoro dopo aver fatto un figlio con la fidanzata Margaret. Richard è interpretato da Tom Hanks e Margaret da Robin Wright, ricomponendo la coppia di Forrest Gump in un nuovo viaggio attraverso le epoche; arriva poi (ma sarebbe meglio dire “durante”) una coppia di afroamericani che abitano nella casa negli anni della pandemia, fino allo scioglimento finale che non è uno scioglimento narrativo ma ancora una volta uno spatial turn: il controcampo negato, che avevamo intravisto solo in un breve momento del film (quando viene spostata una specchiera durante uno dei numerosi traslochi), viene finalmente concesso da un movimento di macchina, ma la casa è vuota, non c’è più niente da vedere, a parte il puro spazio che è il tema portante del film.

La topofilia di Zemeckis si traduce allora in un senso dell’abitare che coincide con l’essere, dunque nei termini di Martin Heidegger:

Abitare, esser posti nella pace, vuol dire: rimanere nella protezione entro ciò che ci è parente (Frye) e che ha cura di ogni cosa nella sua essenza. Il tratto fondamentale dell’abitare è questo aver cura. Esso permea l’abitare in ogni suo aspetto. L’abitare ci appare in tutta la sua ampiezza quando pensiamo che nell’abitare risiede l’essere dell’uomo, inteso come il soggiornare dei mortali sulla terra (1976). 

E per Zemeckis l’abitare è memoria dello spazio, un’iscrizione che permane, come si evince dall’ultimo dialogo tra Richard e Margaret, mossi alla ricerca di un dettaglio, di un fatto avvenuto nella casa che hanno abitato, una traccia che li tiene insieme al di là di tutto.

Riferimenti bibliografici
G. Bachelard, La poetica dello spazio, Dedalo, Bari 1975.
H. M. Enzensberger, Zig zag, Einaudi, Torino 1998.
M. Heidegger, Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976.
R. McGuire, Qui, Rizzoli Lizard, Milano 2015.

Here. Regia: Robert Zemeckis; sceneggiatura: Eric Roth, Robert Zemeckis; fotografia: Don Burgess; interpreti: Tom Hanks; Robin Wright, Paul Bettany, Kelly Reilly, Michelle Dockery, Gwilym Lee; produzione: Miramax, ImageMovers, Playtone; distribuzione: TriStar Pictures, Sony Pictures Releasing; origine: USA; durata: 104′; anno: 2024.

Tags     casa, Fumetto, spazialità
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