di PIETRO MASCIULLO
The Laundromat di Steven Soderbergh.
Il cinema non ha nulla a che fare con il suo dispositivo o con la dislocazione degli schermi. Può essere nella tua camera da letto o sul tuo iPad. E non deve nemmeno essere per forza un film: potrebbe essere una pubblicità, potrebbe essere qualcosa su YouTube… il cinema è una specificità della visione.
Steven Soderbergh
Con la solita disarmante lucidità Steven Soderbergh ripensa costantemente il cinema nel nostro tempo. È come se il regista di Effetti collaterali (titolo quanto mai rivelatorio) ci ponesse sempre questioni preliminari intimamente connesse al decentramento percettivo e alle nuove pratiche di visione nell’era della tardo modernità informatica. Scorrendo i titoli della sua filmografia – sin dal seminale Sesso, bugie e videotape (1989) – si passa idealmente dal grande schermo di un festival allo streaming di una piattaforma online, dalle App partecipate di Mosaic (2018) alla leggerezza di un iPhone movie (Unsane, 2018), rifunzionalizzando puntualmente il cinema tra supporti e dispositivi come campo di forze espanso e ormai fuso al nostro modo di guardare il XXI secolo.
L’immagine cinematografica, però, rimane ancora qualcos’altro rispetto al flusso anestetico di informazioni proprio perché rivendica consapevolmente un archivio di forme che da più 120 anni persiste riflettendo apertamente su ogni presente (e sulle immagini di ogni presente). Da questo punto vista Steven Soderbergh è uno dei più grandi cineasti americani degli ultimi trent’anni. Un regista totale che produce, monta (con lo pseudonimo di Peter Andrews) e fotografa (con lo pseudonimo di Mary Ann Bernard) tutti suoi film incarnando da un lato la più alta manifestazione di autorialità possibile nell’era del videomaking e praticando dall’altro le più sperimentali tecniche distributive dell’odierna industria culturale.
Ed eccoci finalmente allo straordinario The Laundromat (2019). Il film sui Panama Papers. Ossia sugli 11 milioni di file confidenziali sottratti nel 2016 al ricchissimo studio legale panamense “Mossack Fonseca” e contenenti informazioni su centinaia di migliaia di società offshore riconducibili a personalità di spicco in ben 40 paesi del mondo. Soderbergh parte da lontano e ci immerge con estrema facilità in una miriade di generi, stili e forme storicizzate: dalla televisione didattica rosselliniana ripensata in era social (ancora la leggerezza del dispositivo), alla commedia politica a sfondo sociale (con dialoghi alla Billy Wilder e travestimenti vertiginosi che smascherano la storia come in Ernst Lubitsch); dal pamphlet sulle storture del tardo capitalismo finanziario al saggio economico sui confini tra evasione ed elusione fiscale da tracciare nei flussi virtuali del credito; infine dall’horror perturbante associato non a caso alla Cina come spazio immaginario delle nuove guerre dei dazi sino al più spudorato metacinema godardiano che ritrova una forte referenzialità nell’esperienza degli schermi interattivi.
Insomma Soderbergh fa e disfa set, trucca e strucca attori, crea narrazioni codificate e poi le innerva di tracce documentali (il presidente Obama che nel 2016 spiega le falle legali del sistema americano) concependo il cinema come pharmakon positivo da instillare nelle immagini virali del nuovo millennio (per citare lo Stiegler di Reincantare il mondo).
Ecco che in questo nuovo Contagion – la sceneggiatura è firmata dallo stesso Scott Z. Burns – il virus biochimico che rischia di uccidere l’intera umanità viene sostituito da un virus finanziario che mette in allarme una rete globale di soggetti. Ed è per questo che Mossack (Gary Oldman) e Fonseca (Antonio Banderas) si rivolgono direttamente a noi con un espediente formale da non confondere con il divertissement postmoderno, bensì come consapevole riflessione estetica sulle pratiche dei nostri abituali ambienti mediali.
In era di social network, infatti, ogni discorso politico viene pensato e fruito in videoselfie (la stretta attualità italiana ne è una prova quanto mai evidente), proprio perché ogni informazione condivisa ci costringe a prender posizione (spesso sulla base di pochissimi elementi). I Panama Papers rimangono quindi il link ideale che perimetra la contemporary society saltando da un anziano americano morto tragicamente su un battello turistico a un ricchissimo finanziere africano con problemi familiari, da una spietata multinazionale cinese a uno spericolato faccendiere europeo. I primi due capitoli del film si intitolano non a caso: “i miti sono fregati” e “i gusci sono vuoti”.
Pertanto: la nuova frontiera dell’audiovisivo, Netflix, una delle multinazionali simbolo del XXI secolo, diventa uno spazio aperto dove sfruttare al meglio il potere contrattuale di un “regista premio Oscar” operando questa ironica critica al capitalismo 2.0 (come già fatto nel magnifico High Flying Bird, uno dei film più politici e radicali del decennio). Soderbergh firma quindi il suo ironico e divertito Greed e vince la sua sfida sul campo della “discussione aperta” provocata da un plateale prodotto del sistema che critica aspramente il sistema. Il “doppio ruolo” di Meryl Streep, in fondo, non è altro che la configurazione di una dicotomia che il cinema ha sempre protetto: sepolta dietro una miriade di glitch informatici e legali, percorsi documentali e immaginari, avidità personali e collettive, si cela ancora una memoria emotiva da configurare in quello sguardo paradossale.
A Las Vegas, la città dei simulacri dove la Tour Eiffel è edificata accanto al Colosseo, esiste un angolo di strada che custodisce l’amore della vita per questa donna: il ricordo più intimo è posto però nel fuori campo dell’immagine, oltre quella finestra, da guardare ancora con volto affabulato poco prima che il “riciclaggio” delle immagini-denaro riprenda imperterrito. Fermiamoci qui: forse i miti non sono del tutto fregati, forse i gusci non sono tutti vuoti…
Riferimenti bibliografici
Z. Bauman, Capitalismo parassitario, Laterza, Roma-Bari 2011.
R. Lobato, Netflix Nations: The Geography of Digital Distribution, New York University Press, New York 2019.
B. Stiegler, Reincantare il mondo. Il valore spirito contro il populismo industriale, Orthotes, Salerno 2012.
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