Gisèle Freund © IMEC, Fonds MCC, Dist. RMN-Grand Palais

Dobbiamo a Milan Kundera, oltre che alcuni grandi romanzi, le più potenti ed originali riflessioni sul romanzo che io conosca, insieme forse a quelle di Michail Bachtin (entrambi vengono da Est, dal potente tronco del grande romanzo russo di Dostoevskij e Tolstoj, anche se per Kundera è stata soprattutto la tradizione del romanzo europeo a contare).

Qual è il punto di grande originalità nella riflessione di Kundera? È la consapevolezza della radicale novità della forma romanzesca, che può arrivare a fare a meno perfino anche della parola stessa. Esiste un romanzesco musicale (Stravinskij), come anche uno cinematografico, con Fellini che «è il vertice dell’arte moderna». Perché il romanzesco non è altro che forma compositiva libera, capace di scoprire e generare qualcosa di nuovo, qualcosa che non vi preesiste: «La sola ragion d’essere di un romanzo è scoprire solo quello che un romanzo può scoprire. Il romanzo che non scopre una porzione di esistenza fino ad allora ignota è immorale» (Kundera 2022, p. 18).

E questa novità si genera nel momento in cui il romanzo ha come prospettiva allo stesso tempo un orizzonte spaziale (il mondo) e uno temporale (passato, presente e futuro) non più restituibili e mediabili attraverso la logica dell’azione e la sintesi dell’intreccio. Mentre per i generi classici, la forma si faceva carico di un’azione che le preesisteva e di cui era “imitazione”, come ci dice l’Aristotele della Poetica quando parla del mythos come mimesis praxeos, con il romanzo moderno è proprio l’azione, e la possibilità del soggetto di esprimersi attraverso di essa a crollare. «L’azione, in un romanzo, si fa problematica, appare come una domanda multipla: se l’azione è solo il risultato dell’obbedienza, può ancora dirsi azione? E come distinguere l’azione dai gesti ripetuti della routine?» (Id. 2005, p. 117).

Il soggetto, e dunque il personaggio del romanzo, si rende distante dalle azioni che compie e dalle esperienze che fa, e se ancora Boccaccio nelle sue novelle «racconta semplicemente delle azioni e delle avventure», già «Diderot è più scettico: il suo Jacques il fatalista seduce la fidanzata dell’amico, si ubriaca per la felicità, suo padre lo riempie di botte, passa di lì un reggimento, lui si arruola per ripicca, alla prima battaglia riceve una pallottola nel ginocchio, e rimane zoppo per una vita. Pensava di incominciare un’avventura amorosa, e invece stava andando incontro all’infermità» (ivi, p. 42).

Questa strutturale messa in questione dell’azione che il romanzo opera non significa la cancellazione dell’aziona stessa, ma la sua riconsegna da un lato ad una interiorità incerta e dubbiosa, incapace di riconoscere in ciò che fa una espressione di sé, dall’altro ad una esteriorità, ad un mondo come insieme dispersivo di situazioni e credenze, nelle quali il soggetto si smarrisce.

Il romanzo è capace di tenere insieme la complessità dell’interno e dell’esterno, e dei loro rapporti, che coincide con l’esistenza umana stessa, e col suo essere comunque «in trappola» – come dice Kundera nel suo romanzo più famoso, L’insostenibile leggerezza dell’essere. Tale trappola non può essere liberata da alcuna verità epistemologica ed ideologica sovraordinata: storia, religione, progresso, scienza che sia. Da tale trappola solo la scrittura romanzesca è capace di liberare, perché il suo carattere “problematico” (come già pensava il Lukács di Teoria del romanzo), che riguarda la discordanza tra l’io e il mondo, ha un vantaggio di fondo: comporta la lacerazione di ogni illusione, porta alla luce la crisi, e dunque costruisce le condizioni per comprendere ciò che siamo e come viviamo. Questo riconoscimento della complessità è la posta in gioco del romanzo, il suo vero senso che elude ogni verità assoluta e ogni giudizio liquidatorio: «Lo spirito del romanzo è lo spirito di complessità» (ivi, p. 36).

Su questo Kundera insiste a più riprese rivendicando al romanzo la forma di espressione di una crisi non alienabile né riscattabile che coincide con la presenza al mondo dell’uomo moderno (quello “prosaico” di cui ci ha detto Hegel). Ma come fa il romanzo a restituirci tutto questo? È nel rapporto stretto con il «presente incompiuto» (Bachtin) che il romanzo è capace di metabolizzare materiali e forme eterogenei, che restituiscono alla composizione una grande libertà, in molti casi senza misura. Il discorso del romanzo ne può stilizzare diversi altri, Kundera li identifica come «richiami» (ivi, pp. 31 sgg.): il gioco (Sterne), il sogno (Kafka), il pensiero (Musil), il tempo (Proust).

In questo risiede la libertà creativa del romanzo rispetto ai generi classici: libertà di metabolizzare ed inventare personaggi e forme, situazioni e discorsi eterogenei. Libertà che origina dal comico e dalle sue capacità dissacranti. La forma e la composizione del romanzo si fondano sulla prossimità comica con il mondo presente, di cui i modelli sono il Don Chisciotte di Cervantes, sul cui carattere fondativo Kundera torna a più riprese, e prima ancora il Gargantua e Pantagruel di Rabelais, in cui «si trova di tutto: il verosimile e l’inverosimile, l’allegoria e la satira, i giganti e gli uomini normali, gli aneddoti, le meditazioni, i viaggi reali e quelli fantastici, dispute erudite e le digressioni di puro virtuosismo verbale» (Id. 2022, pp. 13-14).

Ma se il romanzo, ogni grande romanzo, in un certo senso ricapitola la storia del macro-genere, e dunque di tutta una tradizione, è necessariamente nel rapporto con il presente che un romanzo deve misurarsi. E questo misurarsi significa di fatto essere “contro”: il romanzo deve essere necessariamente contro lo «spirito del tempo» e il «progresso del mondo» (ivi, p. 37).

Questo spirito è quello che oggi si deposita nella comunicazione e nell’informazione, a cui necessariamente la forma romanzesca deve resistere: «Il romanzo (come tutta la cultura) si trova sempre di più nelle mani dei mass media; e questi, essendo agenti dell’unificazione della storia planetaria, amplificano e canalizzano il processo di riduzione» (ivi, p. 35). Ebbene, ciò a cui deve opporsi in generale il romanzo sono i dispositivi di totalizzazione e semplificazione del senso, sia quando sono guidati dall’ideologia e dalla propaganda dei regimi totalitari, sia quando riguardano il conformismo dell’opinione pubblica democratica.

È quello che ha fatto Fellini con il suo romanzesco cinematografico, inventando personaggi e situazioni che, svincolati da logiche narrative, sono stati capaci di «gettare uno sguardo magicamente immaginativo e, allo stesso tempo, terribilmente lucido sul mondo moderno, sulla sua grottesca sessualità, il suo abbrutimento, il suo esibizionismo», come lo elogia Kundera con riferimento soprattutto alla seconda parte della sua carriera, quella che va dal Satyricon in poi. Quel Fellini che voleva fare un film dal tanto amato Kafka e dal suo America.

Milan Kundera non è stato solo uno dei più grandi e noti romanzieri contemporanei, è stato qualcosa di perfino più importante. È stato la coscienza consapevole e viva di una tradizione europea sovranazionale (passando lui stesso dalla lingua ceca alla francese) che nella forma romanzo ha trovato la sede impareggiabilmente più alta di una critica viva del presente, resistente a dogmatismi e dettami, e di una presa in carico del passato di una tradizione letteraria alla quale Kundera ha sentito sempre di appartenere. Di questa coscienza l’Europa, oggi alla deriva, ne ha grande bisogno.

Riferimenti bibliografici
M. Bachtin, Estetica e romanzo, Einaudi, Torino 2001.
M. Kundera, Il sipario, Adelphi, Milano 2005.

Id, L’arte del romanzo, Adelphi, Milano 2022.
Id, I testamenti traditi, Adelphi, Milano 2022.
G. Lukács, Teoria del romanzo, SE, Milano 2019.

Milan Kundera, Brno 1929 – Parigi 2023.

Tags     Bachtin, Fellini, Kundera, romanzo
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