Danton

Ci sono quattro sipari sulla scena, uno dietro l’altro, identici, che aprono e chiudono lo sguardo dello spettatore, dal proscenio fino alle quinte. L’azione si svolge tra un sipario e l’altro o in profondità di campo, occupando l’intera scena. È come se ciò a cui si sta assistendo fosse una rappresentazione ribadita quattro volte, quasi che un unico sipario non bastasse a dare il senso di uno scarto tra quello che si sta guardando e la vita che avviene fuori dalla sala di un teatro. Perché è proprio il gesto di aprire e chiudere un sipario a imporre allo spettatore una presa di responsabilità su ciò che guarda, a segnare un confine tra uno sguardo testimoniale, esperienziale, interno alla dialettica della vita, ed uno invece disposto e politicamente impegnato ad incontrare ciò che, dietro quel sipario, chiede di essere visto.

I quattro sipari di Morte di Danton di Georg Büchner diretto da Mario Martone sono l’elemento chiave di uno spettacolo che in ogni passaggio, ogni movimento plastico e sonoro dentro e fuori la scena (soprattutto nella platea, parte integrante della messinscena), rappresenta una lunga e incessante interrogazione sul senso del teatro e della politica, quasi che le due cose fossero indistinguibili. Un’interrogazione sul significato dell’agire politico quale prassi autenticamente teatrale (cosa su cui forse non servirebbe nemmeno interrogarsi, basterebbe pensare a come il linguaggio comune ancora oggi contiene in sé le tracce di questo isomorfismo in espressioni come “teatrino della politica”, “politica spettacolo” o “scena politica”), ma soprattutto sul teatro inteso come unico spazio in cui il politico ritrova la sua autentica natura: quella di essere un incontro tra un piano ideale, un “attore” o un’“attrice” che quel piano è capace di incarnare con il suo corpo e le sue parole, e una folla disposta a prestarvi attenzione.

Morte di Danton è dunque un atto teatrale della politica e, allo stesso tempo, un atto politico del teatro, perché in realtà non c’è alcuna differenza. E non c’è quasi mai nel grande teatro (cosa sono Oreste, Edipo, Lear se non delle singolarità politiche, agenti portatori di istanze collettive attivabili solo nel movimento teatrale e politico della rappresentazione?), ma poche pièce come quella di Büchner e pochi spettacoli come quello realizzato da Martone sono in grado di mostrarlo così chiaramente.

Chi è infatti il Robespierre che immagina Martone, che si rivolge direttamente allo spettatore durante la sua arringa all’Assemblea Nazionale nel finale del secondo atto (e a cui l’Assemblea risponde attraverso gli altoparlanti fissati sui palchi)? O Danton che, rinchiuso alla Conciergerie, parla al Tribunale della rivoluzione sulle note dell’Allegretto della Settima sinfonia di Beethoven? Sono essi personaggi teatrali o uomini della Storia? La verità è che nello spettacolo non c’è più alcuna distinzione, e non perché la pièce di Büchner rimane uno dei primi e straordinari esempi di théâtre vérité della modernità, ma perché i gesti e le parole di quei personaggi sono intimamente politici nel momento stesso in cui vengono rivolti direttamente al pubblico di una sala, come sceglie di fare Martone, o anche semplicemente esposti in una recitazione senza “quarta parete”, che non ha altro interlocutore che lo spettatore (è in fondo questa, come credeva anche Szondi, una delle grandi eredità della drammaturgia novecentesca, da Beckett a Pirandello, di cui Büchner è uno straordinario precursore).

In definitiva, il teatro non tratta la politica ma – mai come in questo caso – è la politica, o meglio, è quella operazione capace di cogliere la coscienza dell’uomo “nello stato della politica”, come scrive Alain Badiou (Rapsodia per il teatro, p. 95). Ma è possibile dire allo stesso tempo anche il contrario: la politica infatti coglie la coscienza umana nello stato del teatro, perché il teatro e la politica sono quel punto di indistinzione tra l’ideale e il materiale che trova unicamente forma reale nel processo della rappresentazione. Ecco perché qualsiasi altra arte (il cinema in primis) pur potendo trattare della politica o compiere gesti politicamente, non può condividere con la politica la sua essenza più profonda.

Per certi versi infatti, Morte di Danton è la messa in scena di una “rivoluzione mancata” esattamente come lo era stato Noi credevamo. Ma lì dove il film sul Risorgimento italiano era un’operazione di racconto, di raccordo tra uno sguardo storico e uno sul presente, qui lo “stato della rivoluzione” (ovvero la condizione del movimento rivoluzionario) prende materialmente corpo sulla scena. Contrariamente al cinema, è infatti solo attraverso una presentazione che la rappresentazione può darsi a teatro; in altre parole, è solo mettendo in scena le condizioni della rivoluzione, attraverso i processi drammaturgici e registici di semplificazione dell’azione, che è possibile rappresentarla.

Danton e Robespierre, il “vizio” contro la “virtù”, con i loro discorsi pronunciati direttamente verso gli spettatori – folla eterogenea di individui che assiste allo spettacolo della rivoluzione – costituiscono il punto di coalescenza, le singolarità attraverso cui, nella presentazione dei corpi e delle voci, si dà forma e si rappresenta il politico. È un equilibrio perfetto in cui nessuno dei due regimi è sottoposto al dominio dell’altro, come invece voleva Brecht, ma esiste ed è com-possibile solo ed in sua funzione. Entrambi, Danton e Robespierre, come e in quanto attori che si fanno carico di un’universalità che li trascende, vivono sul bordo del vuoto. Il primo alle prese con l’imminenza della sua fine, con l’incontro con il nulla a cui è condannato il suo corpo, come dice egli stesso nello straordinario monologo del quarto atto; il secondo invece prigioniero della sua solitudine, quella in cui la virtù non lascia spazio al dubbio, il rigore alla capacità di ascolto (si pensi allo stupefacente dialogo tra i due del secondo atto).

Attori della scena e della Storia, essi si tengono a distanza dall’abisso, dal nulla a cui è condannato l’uomo che non agisce secondo i propri valori per modificare e superare la realtà che gli si pone di fronte. Perché ogni rivoluzione (psicologica, sociale, ecc.), palingenesi ultima e mito fondativo della modernità, è l’autentico discrimine tra l’agire e il non agire, l’essere e il non-essere. E, come ci ricorda ancora una volta Martone, non c’è niente di più teatrale della rivoluzione e niente di più rivoluzionario del teatro.

Riferimenti bibliografici
A. Badiou, Rapsodia per il teatro. Arte, politica, evento, a cura di F. Ceraolo, Pellegrini, Cosenza 2015.
P. Szondi, Teoria del dramma moderno (1880-1950), Einaudi, Torino 2000. 

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