All monsters are human” dice Sister Jude in American Horror Story, la serie televisiva statunitense trasmessa sulla rete via cavo FX. È l’esergo che Francesca Giro e Gaetano Pagano hanno scelto per il libro MONSTRUMANA. L’umanità del mostruoso, la mostruosità dell’umano (effequ, 2022), che riprende e sviluppa il podcast sui “mostri umani” della letteratura #Monstrumana. Quella mostruosa è l’altra inseparabile faccia dell’umano. Ma questo non vuol dire altro, in fondo, che tutti gli umani sono mostri. E che cos’è, allora, un mostro? Qualcosa da vedere, qualcosa che si offre allo sguardo, qualcosa – per essere ancora più brutali ma precisi – da offrire in pasto allo sguardo. Si chiarisce subito, allora, quel è la posta in gioco di questo libro, lo sguardo dell’altro. È mostro chi non ha altra consistenza che lo sguardo altrui, e siccome tutti noi viviamo dello sguardo altrui allora siamo tutti mostri. Il mostro ci parla di questa dipendenza, e quindi mette in scena, propriamente, la fragile condizione di chi ha bisogno di un mostro per sperare di sapere chi è: «Il mostro è un’incarnazione liminale di tutto ciò che è altro, spaventoso e fuori dalla norma, un essere di confine che racchiude in sé quello che temiamo e non comprendiamo del mondo intorno a noi» (Giro, Pagano 2022, p. 140).

In effetti, di per sé, nessuno è un mostro. Ci vuole una norma sociale da cui allontanarsi e con cui confrontarsi per poter essere giudicato come mostruoso. Ma questo significa, appunto, che il mostro non è che nel riflesso di disgusto e orrore dell’altro: «È lo sguardo dell’altro che produce il “mostro”, nessuno è un mostro di per sé» (ivi, p. 71). Prendiamo il caso esemplare di Calibano, la mostruosa creatura, appunto, della Tempesta (1611) di William Shakespeare.

L’innegabile alterità di Calibano si muove costantemente lungo il confine di ciò che può definirsi umano: il suo corpo è mostruoso ma comunque umanoide, l’intelletto è ritenuto sufficientemente avanzato per un certo livello di apprendimento, ma comunque viziato da istinti "selvaggi" e "primitivi" che ne rendono impossibile la piena integrazione nella "società civile". Calibano occupa uno spazio liminale i cui confini sono stabiliti e delineati da figure terze. Ci preme sottolineare che la mostruosità, che nell’economia della pièce è un dato stabile ed incontrovertibile, si configura in realtà come tale solo nel momento in cui lo spazio di Calibano viene occupato ed espropriato. Prima della presenza umana non vi era nessuno che potesse far presente a Calibano che il suo aspetto non fosse conforme, da un punto di vista antropocentrico, né che il suo modo di vivere (sul)l’isola mancasse della necessaria civiltà di cui gli invasori si erano fatti baluardo. Quando ancora viveva in quasi perfetta solitudine, Calibano non aveva alcun bisogno di definirsi, di sapere chi fosse. È solo con l’arrivo – e la conseguente prevaricazione – di Prospero e Miranda che si comincia a delineare chi sia Calibano, in relazione a loro, che non si pongono in una posizione paritaria rispetto al nativo dell’isola, ma esercitano quasi immediatamente tutto il loro potere (ivi, p. 71).

Che cos’era Calibano prima dell’arrivo di Prospero e Miranda? Era la vita di qualcuno, o qualcosa, inserito in un ambiente che lo “accettava” così come lo stesso Calibano “accettava” quell’ambiente. La mostruosità è sempre sociale. Con l’arrivo dell’altro improvvisamente Calibano si scopre come mostruoso, ossia, scopre di essere diverso dalla norma incardinata nello sguardo di Prospero e Miranda. Ma la relazione, come tutte le relazioni sociali, è simmetrica, e così anche i nuovi padroni scoprono la propria posizione di potere attraverso la posizione subordinata di Calibano. Non c’è padrone senza schiavo, e viceversa. Ecco allora che Prospero e Miranda hanno bisogno di un mostro per potersi pensare come padroni, come “normali”, ossia come coloro che hanno il diritto di guardare senza essere a propria volta guardati. Ma Calibano, ovviamente, ricambia lo sguardo. È un’altra delle funzioni del mostro, mettere in movimento la dinamica sociale, la lotta per gli sguardi, cioè la lotta per il potere di chi può guardare senza essere, però, oggetto dello sguardo altrui: «La funzione del mostro è quella di interrogare il potere» (ivi, p. 61). Non c’è tanto il mostro, quanto il dispositivo sociale che “mostrifica” l’oggetto di uno sguardo, appunto, “mostrificante”. Il meccanismo è ben illustrato nel caso di un gioco con dei bambini ripreso da #Monstrumana:

MP chiede alla sua classe di mettere nella zucca i biglietti anonimi che contengono il compito assegnato il pomeriggio precedente, ovvero rispondere in maniera più sintetica possibile alla domanda: che cos’è un mostro? Alcune delle risposte che ottiene:
Una cosa che fa paura;
Una creatura che ha i denti affilati e gli occhi bianchi;
Può essere una specie di gatto ma cattivo e grande;
Qualcosa del genere – segue il disegno di un ragno peloso dagli
occhi gialli – e anche altri insetti;
Qualcosa che non esiste ma fa paura;
Giacomo (ivi, p. 11).

L’esempio è particolarmente interessante, perché mostra in modo evidente come il mostro non sia qualcosa che sia di per sé mostruoso, bensì è il risultato di un processo che produce la mostruosità dell’oggetto di questa stessa procedura (il mostro è ricorsivo). All’inizio il mostro è “una cosa che fa paura” – cioè il mostro è oggettivo – poi velocemente il mostro diventa uno dei bambini della classe, cioè il mostro è affatto soggettivo. Perché molto lucidamente questi stessi bambini sanno bene che il mostro è “qualcosa che non esiste” ma che tuttavia fa ugualmente “paura”.

Il mostro, pertanto, è qualcosa che impaurisce, e ciò che impaurisce è propriamente la sua alterità rispetto al noi che pensa di essere, invece, affatto normale. La paura è l’affetto provocato dal mostro: «Perché il mostro ha a che fare con la paura. E noi abbiamo sempre paura. Che sia un gatto abnorme o che sia Giacomo, il mostro è qualcosa che ha a che fare, per opposizione e minaccia, con la nostra storia e con la nostra situazione: la nostra identità» (ivi, p. 12). In questo senso ogni mostro è, implicitamente o esplicitamente, politico, perché mette in causa le identità costituite, e per converso apre alla diversità non ancora riconosciuta. Il mostro, in questo modo, riverbera sul punto di vista del potere che giudica come mostruoso qualcosa o qualcuno: ogni attestazione di mostruosità è in realtà una dichiarazione di guerra:

Come è il caso per quasi tutti i mostri, l’alterità di Calibano si configura come tale perché emerge dal confronto con le norme prestabilite, ma non è lì che si ferma. La sua è una mostruosità che viene stabilita in modo voluto e programmatico, imposto dalla visione del mondo di Prospero: quest’ultimo prende possesso di una terra che non gli appartiene e usa la forza e la conoscenza – cioè la sua magia, le capacità linguistiche e le informazioni ottenute da Calibano stesso – per rendere in schiavitù colui che è nato libero sull’isola (ivi, pp. 88-89).

Si delinea così una sorta di dinamica del mostruoso, che parte dall’assegnazione violenta della condizione di “mostro”, alla sua inevitabile ribellione, come mostra (sic) la storia esemplare della “creatura” assemblata dal dott. Frankenstein. In questo caso la rivolta del mostro contro il suo non meno mostruoso “genitore” è appunto la rivolta del subordinato contro l’oppressore, dello schiavo contro il padrone, dello scandalo contro lo scandalizzato: per questo «è abbastanza spontaneo, durante la lettura di Frankenstein, chiedersi chi sia il vero mostro. Davvero è la Creatura, sgraziata e bestiale, che progressivamente si trasforma effettivamente in assassina? Oppure lo è il suo creatore, che dopo averle dato vita assemblando pezzi di cadavere a suo piacimento, la abbandona a sé stessa senza darle amore, o senza darle almeno, a voler essere meno sentimentali, una legge?» (ivi, p. 25).

Il mostro, paradossalmente, produce l’effetto contrario di quanto sembra indicare la paura che provoca in chi lo guarda; non solo il mostro è l’altra faccia della nostra normalità, perché non avremmo questa senza quella, ma soprattutto il mostro mette in questione questa stessa dualità. Se il mostro, infatti, ci offre rovesciato e deformato il nostro sguardo, allora in quello stesso mostro vediamo quanto sia arbitrario, e violento, quello sguardo “mostrificante”. Non c’è Creatura senza Frankenstein, come abbiamo visto, e questo che significa se non che Frankenstein è sempre sul punto di diventare la Creatura? E che cosa sogna, la creatura, se non vivere una vita serena e borghese? Capiamo allora come «la forza del mostro, del “diverso”, sia la sua presenza, la sua sfida costante allo status quo, il suo ricordarci dei nostri limiti, il suo riflettere nostri aspetti complessi e a volte inappetibili» (ivi, p. 180).

Se il mostro, in definitiva, più che qualcuno o qualcosa è un operatore di estraniazione e di messa in discussione delle identità precostituite, lo stesso vale, e a maggior ragione, per la letteratura nel suo insieme, che se vuole essere efficace (politicamente efficace) non può non essere anch’essa mostruosa, ossia una macchina che produce mostri: «Considerando l’ampiezza dell’accezione della parola “mostro” in letteratura, potremmo spingerci ad affermare che la letteratura tutta (sede per eccellenza del racconto, dell’analisi e dello svisceramento del conflitto tra un dentro e un fuori, tra un centro e un non-centro) sia in fondo un corpo a corpo col mostruoso». Perché la letteratura, appunto, «ci invita continuamente ad abbattere il confine» (ivi, p. 17) che separa ma anche indissolubilmente unisce Frankenstein e la Creatura, come la Creatura e Frankenstein.

Francesca Giro, Gaetano Pagano, MONSTRUMANA. L’umanità del mostruoso, la mostruosità dell’umano, effequ, Roma/Firenze 2022.

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