L’amore e il potere, non esistono altri grandi temi oggetto di rappresentazione. Ma se la rappresentazione del potere sembra oggi quasi naturale, passi per le narrazioni seriali, o per un cinema d’autore dove il tema si incarna in profili biografici (Hammamet e Meeting Gorbachev), l’amore sembra uscito di scena, collocato nelle maglie strette, spesso soffocanti, dell’ideologia. Confinato dunque esso stesso all’ombra del potere, dissolto in mere posizioni di vittimizzazione o di rivendicazione di diritti (dal #metoo alla questione del gender).

Ma l’amore di fatto è stato sempre apertura di uno spazio alternativo al potere, anche di quello esercitato dall’istituzione matrimoniale. Costruire, sciogliere e riconfigurare un rapporto significa esercitarsi nell’impresa impossibile di tessere il tempo tra-due, collocati tra l’uno e i molti.

Le istituzioni sociali – incluso il matrimonio – di questa tessitura determinano il perimetro, ma non la riuscita, né l’andamento, tantomeno la felicità dell’impresa.

L’impossibile possibilità dell’amore ha solo un vero terreno di pratica ed esercitazione: l’arte. Il romanzo, il teatro e il cinema in questo giocano un ruolo decisivo. Questo non significa immaginare qualcosa come una “estetizzazione dell’amore”, una sorta di bovarismo di ritorno che si vede in forma imperante all’opera nei social media, tra emoticon ed effusioni verbali. Tutt’altro. Si tratta di una capacità “educativa” inscritta nell’arte, e che ci fa capire come il rapporto d’amore non è risolvibile né attraverso deduzioni teoriche (le due metà ricongiunte del Simposio platonico) né tantomeno attraverso gabbie ideologiche, di fatto elusive di ogni confronto. Se è vero che l’amore è – come pensa Alain Badiou – la forma di istituzione di una verità, questa verità del “due” è sempre sul punto di dissolversi nelle maglie dell’esercizio di un dominio, anche quello anonimo dei dispositivi sociali. Ma si tratta molto spesso del dominio illusorio dell’“uno” su se stesso, che comporta necessariamente l’elusione dell’altro.

Una messa in scena de La scuola delle mogli di Molière per la regia di Arturo Cirillo (ancora in tournée) ci fa pensare attraverso un esempio di straordinaria attualità alla subordinazione dell’amore al potere e al modo “innocente” di uscirne.

Se il protagonista Arnolphe pretende di formare, fin da bambina, una donna che possa diventare moglie fidata – “Conosco la sua anima, la giro come voglio, la sento, nelle mani, come fosse di cera” – (Molière 1988, p. 42), senza metterlo a rischio delle corna, lasciandola nell’ignoranza e nell’incapacità, Agnès si sottrae casualmente al programma di vita dell’uomo, incontrando il giovane Horace, che le offre una via diversa, quella amorosa: “L’Amore è un gran maestro. Ci trasforma, ci rende come mai siamo stati, e il grande cambiamento che si opera in noi non avviene nel tempo, è affare di un istante” (ivi, p. 45). Di fronte alle manipolazioni e alle menzogne di Arnolphe, che lo precipitano ossessivamente verso la catastrofe, emerge il coraggio della ragazza che confessa il suo amore non previsto per Horace “Non ne ho nessuna colpa, è solo lui la causa. Quando è successo, io, non ci pensavo affatto” (ivi, p. 71).

Arnolphe, che non ha pensato che a controllare Agnès, ha edificato un progetto di potere fallito. Agnès per un incontro imprevisto sviluppa una potenza di vita che le dà il coraggio di dire la verità, di confessare l’amore. Il controllo di Arnolphe è, attraverso Agnès, controllo e annullamento del suo stesso desiderio, dei rischi della sua esposizione all’altro. Non esclude l’amore, lo silenzia prima di farlo nascere: “Sono io che guido la caccia alla donzella” (ivi, p. 59). La stanza-prigione di Agnès è collocata – nello spettacolo – in alto. Strano, le prigioni sono sempre in basso. Il controllo si esercita dall’alto. Il movimento verso l’alto è quello del desiderio, dell’idealizzazione dell’amata. La prigione-stanza è dunque la siderazione del desiderio – così come dell’oggetto d’amore – per pusillanimità e paura. Il potere serve a questo.

Cesare Garboli divide i personaggi di Molière in “malati” e “medici”. Ma i due tipi spesso si corrispondono, si tengono insieme. E nella “malattia” stessa emerge talvolta in forma perversa più “vita” che nella “salute”. Soltanto che questa “vita” ossessiva e maniacale tende a distruggere e distruggersi. Resta intrappolata. Odiosa, anche se umana: “Ciò che rende umano l’uomo è la malattia” (Garboli 2014). Contrapposto al “malato”, a colui che non può far altro che fare quello che fa, per la sua “natura” servile, incapace di divenire altro da sé, c’è chi occupa una posizione “realista”, i servi scaltri, artefici della risoluzione finale, o l’amico Chrysalde che sminuisce la paura delle corna: “Ci sono cose, nel mondo, cento cose più tristi, più tristi e spaventose del modesto infortunio che vi spaventa tanto” (ivi, p. 61).

Quando i personaggi sono originali e dominanti, come in Molière, significa che da loro discende tutta la storia. Ma significa anche che incarnano una natura, una forza che li sovrasta, e che li rende al di là del bene e del male. L’ossessione di chi è fragile e si rende dunque carceriere, desertificando la vita altrui per paura di perderla, e per paura del suo stesso desiderio. E il “buon senso” di chi lo circonda non è sufficiente. La posizione “sana” al fondo è segnata da un realismo che sconfina in un opportunismo scettico.  Come quello di Chrysalde che, rivolto ad Arnolphe, gli dice che preferisce essere cornuto, piuttosto che vedersi “marito di quelle giustiziere, che processano tutto solo per malumore, quei draghi di virtù, quelle streghe del bene, acrobate inesauste di lealtà e santità” (ivi, pp. 61-62).

Ma tutti i personaggi “eccezionali”, segnati dal male, che annullano la possibilità stessa di immaginare una storia che non discenda da loro, si inscrivono alla fine in una precipitazione tragica. L’esercizio del potere, segnato da contraffazione e controllo, non ha altro possibile destino che la fine, simbolica o reale. A tali personaggi si contrappongono i personaggi veridici, rappresentanti di una vita morale segnata da “illusione cieca” (è il caso del giovane Horace), che a quel potere dicono di opporsi, ma non hanno la forza per ribaltarlo. Saranno semmai i servi con la loro scaltrezza (evidenziata nello spettacolo di Cirillo) a mutare la situazione e ad aprire al finale commedico.

Ma il finale commedico è fondato sull’affermazione dell’amore da parte di Agnès. È lei ad affermare quella potenza d’amore che sente che la farà divenire altro da quello che è. Le farà scoprire per la prima volta una possibilità di vita, che per lei è anche possibilità di sapere (“Tutto quello che so l’ho imparato da lui”, ivi, p. 73). E tutto questo avviene senza calcolo e in forma imprevedibile. Le parole di Molière sono limpide e ci dicono che l’amore “c’insegna ad essere quel che mai non fummo” e accadendo in forma imprevedibile dà la forza alla ragazza di scegliere: “Non c’è niente di male in quello che io ho fatto” (p. 70) e “Basta, questi discorsi non mi dicono niente. Orazio in due parole mi avrebbe già convinta” (ivi, p. 74). E liquida così in una sola battuta le ben note massime sul comportamento della donna nel matrimonio che Arnolphe l’aveva obbligata a leggere.

Ciò che l’amore afferma è una potenza di vita che non investe l’identità dell’altro, ma il mondo che questo ci apre. Un mondo che ci include ma non del tutto. Ci esclude anche. L’accesso a questo mondo passa in forma enigmatica per dettagli irrilevanti (uno sguardo, una mano, un modo di camminare), per segni misteriosi (nessuno può in fondo spiegare perché ama qualcun altro), non prevedibili, associati sempre a qualcosa che li eccede (sia esso un paesaggio, una canzone, un’atmosfera).

Sentire la potenza di vita che passa per l’incontro con un altro, a partire dall’irrilevanza di un segno, significa amare. La scelta che ne consegue è la scelta d’amore, senza la quale l’incontro sfuma.

Quando la potenza di questi segni si irrigidisce, la loro ambivalenza perde il tratto giocosamente equivoco che molto commedie ci hanno raccontato (una per tutte: Partita a quattro di Lubitsch) e diventa inquietante. Il mondo dell’altro ci esclude, non è il nostro. Il soggetto sprofonda nella gelosia, che è la piega minacciosa dell’amore, quella che irrigidisce il segno, trasformato in indice di colpevolezza (il fazzoletto di Otello). L’amante, smarrito nella sua fragilità sospettosa, si sente escluso dal mondo dell’amata (per esempio in Proust). La potenza di vita si trasforma nel potere di controllo, il mondo si richiude inesorabilmente sul soggetto. Che per proteggersi dal dolore gioca d’anticipo e “sequestra” l’altro (come fa Arnolphe).

Ma la potenza dell’incontro d’amore può essere destituita anche se sottoposta al regime contrattuale del matrimonio e alla validazione dei figli. E se in entrambi a dominare resta il potere dell’“uno” e l’ostilità verso l’altro (pilotata magari da avvocati matrimonialisti come in Marriage Story), la potenza dell’incontro d’amore viene sepolta da recriminazioni e rivendicazioni.

Il mondo del tra-due è quello capace di saldare il presente con l’eterno, l’ora e il per sempre. La fugacia del dettaglio, il transitare del segno, diventano vie d’accesso ad un mondo senza tempo. Come in À une passante di Baudelaire, dove la “fugitive beauté” di una donna che passa in una strada caotica, “agile et nobile, avec sa jambe de statue”, può restare solo nell’eternità: “Ne te verrai-je plus que dans l’éternité?”.

In fondo l’amore è – come ogni rivoluzione – una reinvenzione del tempo. È il miracolo di iscrizione “folle” del per sempre nell’ora (il finale di Viaggio in Italia). E se come ogni rivoluzione è destinato a fallire, rinunciarvi significa privare la vita di una possibile potenza.

Ma nel comfort occidentale contemporaneo l’amore sembra essersi dissolto tra effusioni social, gabbie ideologiche e regime securitario. La potenza di un incontro d’amore resta solo in alcuni grandi esempi di cinema dell’Europa dell’Est, associato al dramma della guerra: da Cold War di Pawlikowski ad Atlantis di Vasyanovych (che presenta la più bella scena d’amore vista di recente al cinema).

E se l’amore – come pensava Rimbaud – è da “reinventare”, come farlo nelle situazioni ordinarie? Reinventare l’amore significa anche riprendere a parlarne (“siamo l’ultima generazione a parlare d’amore”, Garrel faceva dire nel 1993 ai protagonisti di J’entends plus la guitare). È questo il compito a cui la letteratura, il cinema e l’arte devono corrispondere, sottraendosi alle parole d’ordine del potere ideologico, economico, securitario.

In questo è proprio la parola dell’arte (dei grandi classici – non solo Molière – ma anche degli autori più coraggiosi del nostro presente) che può insegnarci il coraggio – che non nega la paura – e la gioia – che non rimuove il dolore – di quella “procedura di verità” che fa nascere un mondo tra-due e che chiamiamo amore.

Riferimenti bibliografici
A. Badiou, Elogio dell’amore, Neri Pozza, Venezia 2013.
C. Baudelaire, I fiori del male, Einaudi, Torino 2014.
G. Deleuze, Marcel Proust e i segni, Einaudi, Torino 2001.
C. Garboli, Tartufo, Adelphi, Milano 2014.
R. De Gaetano, Tra-Due. L’immaginazione cinematografica dell’evento d’amore, Pellegrini, Cosenza 2008.
Molière, La scuola delle mogli, a cura di C. Garboli, Einaudi, Torino 1988. 

La scuola delle mogli. Testo: Molière; traduzione: Cesare Garboli; regia: Arturo Cirillo; interpreti: Arturo Cirillo, Valentina Picello, Rosario Giglio, Marta Pizzigallo, Giacomo Vigentini; musica: Francesco De Melis; scene: Dario Gessati; costumi: Gianluca Falaschi; luci: Camilla Piccioni;durata: atto unico 1h 35′ senza intervallo. 

*Le immagini presenti nell’articolo sono foto di scena di Luca Del Pia: https://www.marcheteatro.it/produzioni/la-scuola-delle-mogli/#toggle-id-4. 

Tags     amore, arte, Molière, potere
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